Hong Kong Express
1994
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Regista
Tutto in questo mondo ha una data di scadenza. Le scatolette di ananas, il nastro adesivo, persino l'amore. Questa consapevolezza, una sorta di escatologia pop applicata al quotidiano, è il cuore pulsante e al neon di Hong Kong Express, il capolavoro sinestetico con cui Wong Kar-wai ha impresso a fuoco il 1994 nella memoria cinematografica collettiva. Non è un film, è un mixtape sentimentale, un haiku visivo scritto sulla condensa di una metropoli febbricitante, un'opera che cattura il tempo che fugge con la stessa urgenza con cui un amante disperato cerca di trattenere un ricordo.
Girato in poco più di venti giorni, quasi come un atto di catarsi o una fuga creativa durante una pausa estenuante dalla monumentale produzione di Ashes of Time, il film possiede l'energia grezza e l'immediatezza di un'improvvisazione jazz. È un'opera nata per necessità, per l'urgenza di catturare un sentimento prima che svanisse, e questa fretta febbrile è inscritta in ogni fotogramma. La Hong Kong di Wong, filtrata dall'obiettivo ubriaco e danzante di Christopher Doyle, non è una città-sfondo, ma un personaggio a pieno titolo: un labirinto claustrofobico di mercati notturni, appartamenti angusti e noodle bar, dove le luci al neon si sciolgono in strisce di colore impressioniste e il tempo si deforma, si allunga e si comprime. L'uso ossessivo della tecnica dello step-printing, che trasforma il movimento in una scia spettrale, non è un vezzo stilistico; è la perfetta traduzione visiva della dislocazione emotiva dei suoi personaggi, anime alla deriva in un mare di folla, la cui interiorità è talmente accelerata da lasciare indietro la realtà oggettiva.
Il film è un dittico, due storie di poliziotti innamorati e delusi che si sfiorano appena, collegate da un chiosco di street food, il Midnight Express. La prima parte è un noir decostruito, quasi un'allucinazione hard-boiled. L'agente 223, He Qiwu (Takeshi Kaneshiro), è un antieroe romantico la cui ossessione per le scatolette d'ananas in scadenza il primo maggio – giorno del suo compleanno e a un mese dalla sua rottura – è una delle metafore più struggenti e bizzarre mai concepite sul dolore amoroso. La sua è una lotta contro l'inevitabilità della fine, un rituale assurdo per posticipare l'accettazione della perdita. Il suo incontro con la misteriosa donna dalla parrucca bionda e occhiali da sole (una Brigitte Lin ieratica, quasi un fantasma uscito da un film di Jean-Pierre Melville e precipitato in un video musicale degli anni '90) non è un incontro, ma una collisione di solitudini. Lei, invischiata in un traffico di droga andato male, è la femme fatale svuotata del suo potere, esausta e vulnerabile. La loro notte insieme, trascorsa in una stanza d'albergo dove lui mangia insalate dello chef e lei dorme, è l'apoteosi del non-detto, un momento di quiete quasi sacra in mezzo al caos. È un legame che esiste solo nello spazio negativo, definito da ciò che non accade.
Se la prima storia è una corsa affannosa verso una scadenza, un blues metropolitano intriso di pioggia e sudore, la seconda è una ballata pop sognante e agrodolce. Il testimone passa all'agente 663 (un Tony Leung magnifico nella sua malinconia laconica), un altro poliziotto abbandonato dalla sua ragazza hostess. La sua elaborazione del lutto è più intima, quasi animista: proietta i suoi sentimenti sugli oggetti del suo appartamento, dialogando con un asciugamano che piange, un peluche logoro e una saponetta dimagrita. È un soliloquio che ricorda la tenerezza disperata di certi personaggi di Haruki Murakami, capaci di trovare più empatia nel mondo inanimato che in quello umano. Ma poi irrompe Faye (la popstar Faye Wong, in un esordio folgorante), la nuova ragazza del chiosco. Con i suoi capelli corti, i suoi movimenti dinoccolati e le cuffie perennemente sintonizzate su "California Dreamin'" dei The Mamas & the Papas, Faye non cammina, fluttua. È una creatura di pura pulsione, una manic pixie dream girl che sovverte il cliché perché il suo sogno non è salvare l'uomo, ma abitare letteralmente il suo mondo.
La loro non è una storia d'amore convenzionale, ma un'intrusione poetica. Faye, entrata in possesso delle chiavi dell'appartamento di 663, inizia a "riarredare" la sua vita a sua insaputa: cambia le etichette delle sue scatolette di cibo, compra nuovi pesci per il suo acquario, sostituisce i suoi peluche. È un corteggiamento per procura, un atto di amore che si manifesta come una riprogrammazione dello spazio domestico e, per estensione, dell'anima del suo abitante. Wong Kar-wai trasforma quello che potrebbe essere un atto di stalking in un gioco sognante e innocente, una fantasia sulla possibilità di curare la tristezza di qualcuno senza che se ne accorga. Faye non si innamora di lui, ma dell'idea di lui che si costruisce esplorando le sue tracce, i suoi oggetti, i suoi silenzi. In un certo senso, Faye è lo spettatore ideale: entra in uno spazio narrativo e lo modifica con la propria sensibilità, sperando in un finale diverso. La macchina da presa di Doyle abbandona le corse sfocate della prima parte per adottare uno sguardo più curioso e voyeuristico, che danza e spia Faye mentre si muove al ritmo contagioso della West Coast americana.
Sotto la superficie di queste due storie d'amore mancate e forse ritrovate, pulsa un'ansia più profonda e collettiva. Il 1997, l'anno della restituzione di Hong Kong alla Cina, è l'incombente data di scadenza che aleggia su tutto e tutti. Hong Kong Express è un film profondamente radicato nel suo momento storico, un documento emotivo della precarietà e dell'incertezza di una città-stato la cui identità era in procinto di essere ridefinita. La semiotica del film è intrisa di questa tensione: le scadenze, i voli aerei, i continui riferimenti a luoghi altri (la California sognata da Faye non è un luogo geografico, ma uno stato mentale, un'utopia di fuga e possibilità). È la cronaca di un addio, un ultimo, vibrante ballo prima che le luci si spengano su un'intera epoca. È come se Wong avesse voluto imbottigliare l'essenza di quella Hong Kong, la sua caotica vitalità, la sua malinconia globalizzata, la sua bellezza effimera, prima che il tempo la cambiasse per sempre.
In questo, il film si avvicina allo spirito della Nouvelle Vague francese, in particolare a Godard, per la sua frammentazione narrativa, l'energia urbana e la riflessione metacinematografica. Ma laddove Godard intellettualizza e scompone il sentimento, Wong vi si immerge completamente, trasformando il pensiero in sensazione pura. Non si analizza Hong Kong Express, lo si assorbe. È un film che si sente sulla pelle: l'umidità dell'aria, il sapore del cibo consumato in fretta, il frastuono assordante di una canzone pop che diventa un mantra personale, una preghiera laica contro la solitudine. È un'opera che dimostra come il cinema possa trascendere la narrazione per diventare puro stato d'animo, un'esperienza estetica che ridefinisce il concetto stesso di romanticismo, trovandolo non nei grandi gesti, ma nei dettagli trascurati: in un tovagliolo di carta umido, in una conversazione con un juke-box, nella speranza che, da qualche parte nel mondo, ci sia qualcuno che condivide la nostra stessa data di scadenza. E che forse, solo forse, ci stia aspettando.
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