I magnifici sette
1960
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Regista
Ogni grande narrazione è, in fondo, un atto di traduzione. Non da una lingua all'altra, ma da un'anima culturale a un'altra, un'alchemica trasmutazione di archetipi che dimostra come certe storie siano cablate nel nostro DNA collettivo. John Sturges, con I magnifici sette, non si limita a realizzare un remake de I sette samurai di Akira Kurosawa; egli compie il più superbo e riuscito atto di traduzione cinematografica del XX secolo, trasportando l'epos fatalista del Giappone feudale nel mito fondativo e polveroso della frontiera americana. L'operazione è talmente perfetta da acquisire una propria, autonoma e sfolgorante identità, diventando essa stessa un archetipo per generazioni a venire.
Là dove Kurosawa dipingeva con la pioggia, il fango e il peso schiacciante della gerarchia sociale – i samurai come classe morente, legati a un codice d'onore (il bushidō) che il mondo stava dimenticando – Sturges lavora con il sole accecante del deserto messicano e l'individualismo radicale del West. I suoi non sono samurai che combattono per dovere e una ciotola di riso, ma pistoleri, mercenari la cui professione è diventata un anacronismo. Sono i residuati bellici di un'era di violenza che la civiltà sta cercando di recintare e addomesticare. La loro bussola morale non è un codice ancestrale, ma un pragmatismo esistenziale che, quasi per caso, inciampa nella nobiltà. La paga offerta dai contadini messicani è ridicola, venti dollari, una somma che non giustifica il rischio. E in questa sproporzione risiede il cuore filosofico del film: i Sette non accettano per denaro, ma per trovare, forse per l'ultima volta, una ragione per essere ciò che sono. Un ultimo, magnifico canto del cigno prima che il filo spinato e la legge soppiantino per sempre la pistola.
Il film è, prima di ogni altra cosa, un pantheon di divinità del cool. La sua costruzione iconografica è tanto potente da rasentare la scultura mitologica. Al centro, Yul Brynner nei panni di Chris Adams, un monolite di carisma vestito di nero, la cui autorità non deriva dal grado o dal lignaggio, ma da una calma interiore quasi terrificante. Il suo volto è una maschera impassibile, un centro di gravità attorno al quale orbitano le altre sei stelle. E che stelle. Steve McQueen, nel ruolo di Vin Tanner, non recita: inventa un nuovo modo di stare sullo schermo. Ogni suo gesto è studiato per rubare la scena a Brynner, in una rivalità fuori e dentro il set che è diventata leggenda. Mentre Brynner parla, McQueen agita le cartucce del suo fucile vicino all'orecchio, le conta, le lucida. Piccoli atti di ribellione cinetica che catturano lo sguardo e definiscono un personaggio con il corpo, prima che con le parole. È la nascita del "King of Cool", un'aura che lo accompagnerà per sempre.
Attorno a loro, un cast di caratteri che sono sineddoche viventi del genere. Charles Bronson è Bernardo O'Reilly, il professionista dal cuore tenero che, ironia della sorte, i ragazzini del villaggio scambiano per un eroe messicano, trovando in loro un'ammirazione che vale più di qualunque taglia. James Coburn, Britt, è l'epitome del laconismo zen, un maestro di coltelli la cui abilità è talmente assoluta da sembrare una forma d'arte, quasi disinteressata alla violenza che produce. La sua sfida col pistolero spaccone non è un duello, ma una dimostrazione di fisica applicata, rapida e letale come un haiku. Horst Buchholz interpreta Chico, il giovane impetuoso, il "Toshiro Mifune" della situazione, che vuole disperatamente appartenere a quel mondo di dei mortali e funge da ponte emotivo tra i pistoleri e i contadini, l'unico a comprendere veramente la posta in gioco per entrambi i mondi.
Persino l'antagonista, Calvera, interpretato da un Eli Wallach magnetico e quasi simpatico, sfugge allo stereotipo del bandito. Non è un mostro sadico, ma un uomo d'affari della violenza. Le sue argomentazioni sono spaventosamente logiche: "Se Dio non volesse che tosassi le pecore, non le avrebbe fatte pecore". Calvera non capisce la resistenza dei contadini né la motivazione dei Sette. Per lui, è una questione di economia, un ciclo naturale di predazione. È lo specchio oscuro di Chris e dei suoi uomini: anche lui vive della sua abilità con le armi, ma a differenza loro, non ha mai dubitato della sua funzione nel mondo. Questa complessità rende lo scontro finale non solo una battaglia fisica, ma un conflitto ideologico tra due visioni della sopravvivenza.
La sceneggiatura di Walter Newman, cesellata da dialoghi che sembrano distillati dal miglior hard-boiled di Raymond Chandler, è un miracolo di economia e arguzia. "Siamo finiti con la feccia", dice un pistolero. E Chris risponde: "Abbiamo accettato il lavoro". Ogni battuta è una dichiarazione di intenti, una scheggia di filosofia da frontiera. Ma è la partitura di Elmer Bernstein a elevare il tutto a vera e propria epica. La sua colonna sonora non è un semplice accompagnamento; è l'anima pulsante del film, un'onda di ottoni e percussioni che incarna lo spirito di avventura, l'eroismo e la vastità del paesaggio americano. Quel tema è diventato così iconico da essere assorbito dal subconscio collettivo, usato persino nelle pubblicità delle sigarette Marlboro, fondendo per sempre l'immagine del cowboy con quella musica gloriosa e incalzante. È il suono stesso del mito.
Uscito nel 1960, I magnifici sette si colloca in un punto di svolta cruciale per il Western. Precede di pochi anni la rivoluzione copernicana di Sergio Leone, ma ne anticipa alcuni elementi: l'internazionalità del cast, l'ambiguità morale dei protagonisti, l'attenzione allo stile e al rituale della violenza. Tuttavia, è ancora profondamente radicato nella tradizione hollywoodiana, mantenendo una nobiltà di fondo e un romanticismo che i cinici spaghetti western faranno a pezzi. È un film che guarda al passato del genere con affetto, ma lo proietta nel futuro con una nuova energia, più complessa e disillusa. Si potrebbe quasi vederlo come una sorta di proto-Avengers, una squadra di specialisti disfunzionali riuniti per una causa impossibile, un modello che il cinema d'azione non smetterà mai di replicare.
E poi c'è quel finale, straziante nella sua lucidità, preso quasi parola per parola dal capolavoro di Kurosawa ma caricato di un nuovo, struggente significato. Dopo la vittoria, dopo il sangue e il sacrificio, Chris osserva i contadini tornare alla loro vita, alla terra. "Abbiamo perso", dice a Vin. "Solo i contadini hanno vinto. Noi perdiamo sempre". È una delle battute più malinconiche e profonde della storia del cinema. Per i samurai di Kurosawa, era la constatazione della fine di una casta, spazzata via dal tempo. Per i pistoleri di Sturges, è la presa di coscienza della loro condizione di eterni outsider, uomini senza radici la cui unica abilità li condanna a una vita nomade e solitaria. Non possono mettere radici come i contadini, perché sono il vento stesso, una forza della natura destinata a passare oltre. Hanno vinto la battaglia, ma hanno perso la guerra per un posto nel mondo. In questa amara consapevolezza, I magnifici sette trascende il genere e diventa una tragedia universale sul paradosso dell'eroe, un monumento immortale alla gloria effimera e alla bellezza dolente della solitudine.
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