I migliori anni della nostra vita
1946
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Regista
La guerra non finisce quando tace l'ultimo sparo. Quella è solo una transizione di fase, un cambio di acustica. La vera fine, se mai arriva, è un processo carsico, invisibile, che si consuma nelle camere da letto, nelle cucine, nei bar di periferia dove il juke-box suona una melodia che sembra appartenere a un'altra vita. William Wyler, con I migliori anni della nostra vita, non ha girato un film sulla Seconda Guerra Mondiale; ha diretto un film sul suo assordante silenzio, sulla pace come paesaggio alieno. La sua cinepresa non è puntata sui campi di battaglia, ma sulle macerie dell'anima, su quelle rovine che i soldati si portano a casa dentro uniformi che non calzano più.
Il film si apre in un non-luogo, il muso di vetro di un bombardiere B-17 che riporta a casa tre uomini. Non è un aereo da combattimento, ma una sorta di grembo amniotico che li trasporta da una realtà all'altra, sospesi tra il cielo che li ha resi eroi e la terra che minaccia di renderli superflui. In quella bolla trasparente, Wyler e il suo geniale direttore della fotografia, Gregg Toland, stabiliscono subito le regole del gioco. Al Stephenson (Fredric March), sergente di fanteria e banchiere di mezza età; Fred Derry (Dana Andrews), capitano di aviazione e commesso in un drugstore; Homer Parrish (Harold Russell), marinaio e ragazzo della porta accanto. Tre classi sociali, tre rami delle forze armate, tre traumi distinti, uniti da un'unica, paralizzante domanda: "E adesso?". Quel muso d'aereo è la loro ultima trincea condivisa prima della diaspora nel deserto del quotidiano.
È impossibile, e francamente criminale, parlare di questo film senza genuflettersi di fronte alla grammatica visiva imposta da Toland, reduce dal suo lavoro tellurico su Quarto Potere. Ma se in Welles la profondità di campo era uno strumento di potere, un modo per inscenare la megalomania di Kane e schiacciare gli altri personaggi ai margini dell'inquadratura, qui Wyler la usa in senso opposto. È una profondità di campo democratica, etica. Permette a più storie, più reazioni, più verità di coesistere nello stesso fotogramma, senza che la gerarchia del montaggio ci imponga cosa guardare. La scena più celebre, quella al Butch's Bar, è un saggio di cinema che andrebbe proiettato in loop nelle scuole. Mentre Al telefona alla moglie in primo piano, sullo sfondo Fred suona al pianoforte una melodia malinconica, imparata chissà dove. L'inquadratura non li separa. Li lega in una composizione complessa, mostrando la simultaneità delle loro solitudini. L'ambiente non è uno sfondo passivo, ma un testimone attivo del dramma. L'occhio dello spettatore è libero di vagare, di cogliere il dettaglio, di costruire il proprio significato. È un cinema che rispetta l'intelligenza di chi guarda, trattandolo non come un consumatore di emozioni, ma come un interprete.
Ciascuno dei tre protagonisti incarna una diversa declinazione del ritorno dell'eroe, una variazione sul tema dell'Odisseo che torna a Itaca e la trova irriconoscibile, o forse è lui a essere diventato irriconoscibile a essa. Al Stephenson, il più anziano, sembra quello con il reinserimento più facile: una famiglia amorevole, un lavoro di prestigio che lo attende. Ma la guerra gli ha inoculato un cinismo che l'alcol non riesce a diluire. La sua lotta è contro l'ipocrisia di un mondo che celebra il sacrificio ma poi nega un prestito a un veterano senza garanzie. Fredric March è magistrale nel mostrare l'uomo spaccato in due: il marito e padre affettuoso da un lato, l'anima inquieta che trova conforto solo nell'ubriachezza dall'altro. La sua celebre sbronza al banchetto in suo onore è un pezzo di recitazione sismografico, un atto di sabotaggio contro la normalità borghese che lo sta soffocando.
Poi c'è Fred Derry, l'eroe dei cieli, il bel capitano decorato. Il suo è un dramma squisitamente americano: la discrepanza tra status simbolico e status economico. In aria, era un semidio ai comandi di una fortezza volante; a terra, la sua massima aspirazione è tornare a vendere cosmetici in un grande magazzino. La sua Odissea è la più crudele. Ritorna non da una moglie fedele come Penelope, ma da una sposa superficiale e infedele (una Virginia Mayo perfetta nella sua vacuità) che lo aveva sposato per il fascino dell'uniforme. La sua Itaca è un mondo che non ha più bisogno delle sue abilità. La sequenza in cui vaga in un cimitero di aerei, salendo per l'ultima volta nella carlinga di un B-17, è di una potenza straziante. È un re che visita la tomba del suo regno perduto, un relitto tra i relitti. È una scena che sembra dipinta da Edward Hopper, se Hopper avesse dipinto la morte del Sogno Americano tra le lamiere contorte. Dana Andrews, con il suo volto segnato da una tristezza antica, gli dà un'umanità dolente, quasi insopportabile.
Ma il cuore etico e pulsante del film è Homer Parrish. Qui il cinema trascende se stesso e sfiora il documentario, il miracolo. Wyler, con un coraggio che oggi farebbe tremare i polsi a qualsiasi produttore, scelse per il ruolo Harold Russell, un vero veterano che aveva perso entrambe le mani in un'esplosione. Russell non recita il trauma; lo porta iscritto sul suo corpo. Le sue protesi a uncino non sono un effetto speciale, ma una realtà biografica che irrompe nella finzione e la rende più vera del vero. La sua lotta non è per un lavoro o per ritrovare un equilibrio psicologico, ma per accettare di essere ancora degno d'amore. La scena in cui, nella sua camera da letto, si toglie le protesi di fronte alla sua fidanzata Wilma (Cathy O'Donnell) è uno dei momenti più radicalmente vulnerabili della storia del cinema. Non c'è musica a sottolineare il momento, solo il rumore meccanico delle imbracature e un silenzio carico di terrore e speranza. In quel gesto c'è tutto: la vergogna, la paura del rifiuto, e infine la liberazione nell'accettazione da parte dell'altro. È un momento di un'intimità così profonda da farci sentire quasi degli intrusi. Russell vinse due Oscar per lo stesso ruolo (Miglior Attore Non Protagonista e un Oscar onorario), un unicum nella storia dell'Academy, e non c'è da stupirsi. La sua performance non è una performance, è una testimonianza.
Uscito nel 1946, in un'America che si stava auto-celebrando come salvatrice del mondo libero, I migliori anni della nostra vita fu un atto di straordinaria onestà intellettuale. Osò mostrare il lato oscuro della vittoria, il conto che la Storia presenta sempre, anche ai vincitori. Il film non è un pamphlet pacifista, né un'opera di denuncia. È qualcosa di più sottile e potente: un'esplorazione della fragilità. La fragilità della psiche, dei legami familiari, del tessuto sociale, della mascolinità stessa. Questi uomini, addestrati per essere macchine da guerra, si scoprono impreparati alla sfida più grande: la pace. L'opera di Wyler è un anti-monumento. Laddove il cinema di propaganda costruiva statue di eroi senza macchia, lui scolpisce uomini veri, pieni di crepe, dubbi e difetti, e proprio per questo universali. La sua grandezza non risiede in ciò che mostra, ma in ciò che capisce dell'animo umano. È un film che, come i romanzi di Erich Maria Remarque, racconta la storia di una generazione che "anche se è sfuggita alle granate, è stata distrutta dalla guerra". Un'opera di un'empatia sconfinata, la cui visione oggi non è solo un'esperienza estetica, ma un dovere morale.
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