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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

I misteri di Shanghai

1941

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Entrare ne I misteri di Shanghai è come addentrarsi in un labirinto di fumo e specchi, un’architettura onirica eretta non tanto sulla geografia di una città, quanto sui recessi più oscuri e barocchi dell'immaginazione del suo demiurgo, Josef von Sternberg. Shanghai non è qui un luogo, ma uno stato dell'anima; un palcoscenico iper-stilizzato dove l'Oriente e l'Occidente non si incontrano, ma si infettano a vicenda, danzando un macabro valzer verso la reciproca dissoluzione. Von Sternberg, l'entomologo viennese trapiantato a Hollywood, torna a fare ciò che gli riesce meglio: fissare i suoi magnifici insetti umani sotto una lente d'ingrandimento, illuminarli con una luce spettrale e osservarli mentre si dibattono in una ragnatela di desiderio e rovina da lui stesso tessuta.

Il film, adattato da una scandalosa pièce di Broadway del 1925, è un monumento alla sublimazione artistica imposta dalla censura. Il famigerato Codice Hays, con il suo puritanesimo censorio, costrinse von Sternberg a un esercizio di funambolismo narrativo che, paradossalmente, eleva l'opera a vette di perversa suggestione. La "casa di piacere" dell'originale teatrale diventa un casinò, un inferno dantesco e cosmopolita dove la dannazione non è più carnale ma si trasfigura nel gioco d'azzardo. Ma è una trasfigurazione puramente nominale. Ogni lancio di dadi, ogni giro della monumentale roulette che domina la scena come un altare pagano, è un surrogato dell'atto sessuale, ogni perdita una piccola morte, ogni vincita un orgasmo effimero. Il denaro che scorre sui tavoli verdi è una metafora liquida della libido, del potere e della corruzione. Von Sternberg non mostra il vizio, lo evoca, lo fa aleggiare nell'aria densa di fumo di sigaretta e oppio, lo scolpisce nelle ombre che si allungano come tentacoli sui volti dei suoi protagonisti.

Al centro di questo pandemonio siede, ieratica e immobile, Mother Gin Sling, interpretata da una Ona Munson che trascende la recitazione per diventare pura icona. Non è una donna, è un idolo. Il suo costume elaborato, un'armatura di sete e ricami che sembra disegnata da Erté per una tragedia greca, la inchioda al suo trono, rendendola il perno immobile attorno al quale ruota un universo in caotico movimento. Il suo volto è una maschera del teatro Nō, le sue mani dalle unghie laccate si muovono con una lentezza rituale. È la vendetta dell'Oriente, personificata e stilizzata, una Medea che ha atteso per decenni il momento di servire il suo banchetto avvelenato all'arrogante Giasone occidentale, qui incarnato dal capitalista Sir Guy Charteris (un superbo Walter Huston). La sua immobilità è la sua forza; mentre tutto intorno a lei si agita, si degrada e marcisce, lei osserva, accumulando un potere che è tanto finanziario quanto psicologico.

Il casinò stesso, concepito dal genio visionario dello scenografo Boris Leven, è il vero protagonista del film. Non è un set, è un'installazione d'arte. Una struttura a più livelli che ricorda le prigioni immaginarie di Piranesi, un groviglio di scale, passerelle, reti e paraventi che crea un ingorgo visivo, perfetta metafora della congestione morale dei suoi abitanti. La folla che lo popola sembra uscita da un quadro di Hieronymus Bosch o di James Ensor: un'umanità grottesca, disperata, avida, composta da ogni razza e classe sociale, tutti uguali di fronte alla dea bendata della fortuna. Von Sternberg riempie ogni centimetro dell'inquadratura, creando un horror vacui che soffoca lo spettatore, trasmettendogli la stessa claustrofobia esistenziale dei personaggi. È un mondo senza via d'uscita, un vortice che risucchia tutto e tutti verso il suo centro, la roulette, occhio del ciclone e simbolo del Fato cieco e beffardo.

In questo girone infernale precipita la giovane e bellissima Poppy (Gene Tierney), figlia di Sir Guy. La sua discesa agli inferi è rapida e verticale. La Tierney, con la sua bellezza quasi soprannaturale, è la scelta perfetta per incarnare l'idea di una purezza profanata. Il suo volto angelico diventa una tela su cui von Sternberg dipinge i segni della dissoluzione: la dipendenza dal gioco, la degradazione morale, la sottomissione al fascino vacuo e decadente del "Dottor Omar", un Victor Mature la cui bellezza muscolare e abbronzata è tanto esotica quanto posticcia. Omar, "poeta laureato del nulla", è l'incarnazione del fascino esotico come merce, un gigolò intellettuale che recita versi di Li Po mentre spinge le sue vittime verso l'abisso. È l'amante perfetto per un mondo che ha sostituito la sostanza con lo stile, la passione con la posa.

Il confronto finale, durante una memorabile cena di Capodanno cinese, è un capolavoro di crudeltà psicologica e di messa in scena. La tavola è imbandita come per un'ultima cena, ma invece del perdono, qui si serve la vendetta. Mother Gin Sling, la sacerdotessa del rancore, orchestra la sua sinfonia di umiliazione, svelando lentamente le verità nascoste che legano tutti i commensali in una rete inestricabile di tradimenti e segreti familiari. La rivelazione finale, che sfiora il tabù dell'incesto con una audacia sconcertante per l'epoca, non porta a nessuna catarsi, ma solo a un'ulteriore spirale di distruzione. È la negazione stessa della tragedia classica: qui non c'è purificazione, solo la constatazione che il passato non è mai morto e che i peccati dei padri ricadono sui figli con la precisione di una ghigliottina.

Sotto la sua superficie di melodramma esotico, I misteri di Shanghai è una profonda meditazione sulla fine di un'era. Girato nel 1941, alla vigilia dell'entrata in guerra dell'America, il film cattura l'atmosfera crepuscolare del mondo coloniale, un sistema di potere arrogante e sfruttatore che sta per essere spazzato via dalla storia. Il casinò di Mother Gin Sling è il luogo dove questo vecchio mondo viene a morire, a giocarsi le sue ultime fortune, a confrontarsi con i fantasmi che ha creato e represso. Sir Guy Charteris non è solo un uomo; è l'Impero Britannico, è l'Occidente intero, convinto della propria superiorità e destinato a scoprire, nel modo più brutale, che le fondamenta del suo potere poggiavano sulla sabbia e sul sangue.

La "Shanghai Gesture" del titolo non è un singolo atto, ma l'intera filosofia del film. È la performance costante, la maschera indossata per nascondere il vuoto, il gesto elegante che cela un'intenzione mortale. Ogni personaggio recita una parte, da Mother Gin Sling con la sua impassibilità regale a Poppy con la sua civetteria autodistruttiva. Von Sternberg dirige i suoi attori come se fossero marionette in un teatro kabuki, enfatizzando l'artificio, la posa, la superficie. Il risultato è un'opera profondamente anti-naturalistica, un sogno febbrile che usa l'eccesso e la stilizzazione per arrivare a una verità più profonda sulla natura umana. È un trionfo del barocco, un poema visivo sulla bellezza della decadenza, un capolavoro che dimostra come i limiti imposti dall'esterno possano, nelle mani di un vero artista, diventare la più grande fonte di libertà creativa. Un film che non si limita a mostrare la corruzione, ma la rende esteticamente irresistibile.

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