Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

I mostri

1963

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Regista

Un referto antropologico travestito da farsa, un affresco grottesco dipinto con il vetriolo al posto dei colori a olio. Dino Risi, nel 1963, non gira semplicemente un film a episodi, ma assembla un bestiario umano la cui ferocia risiede proprio nella sua agghiacciante normalità. I mostri non è un film dell'orrore nel senso gotico del termine; i suoi protagonisti non sono vampiri o licantropi, ma l'uomo della porta accanto, il professionista stimato, il padre di famiglia. La mostruosità che Risi mette in scena è endemica, consustanziale all'essere umano colto nel momento esatto in cui il Miracolo Economico italiano prometteva un benessere materiale inversamente proporzionale alla tenuta etica della nazione. Il titolo stesso è una provocazione geniale: non "I Mostri", ma I mostri, con l'articolo determinativo che non indica un gruppo specifico, ma la totalità, la specie. Siamo noi, tutti noi, potenzialmente.

La struttura frammentaria, che all'epoca poteva apparire come un cedimento alla formula commerciale del film-omnibus, è in realtà la chiave di volta estetica e concettuale dell'opera. Risi non ci offre un romanzo, ma una raccolta di novelle nere che riecheggiano un Boccaccio postmoderno e disincantato. Ogni episodio è una scheggia impazzita che trafigge un diverso aspetto del corpo sociale: la famiglia, la giustizia, la politica, la cultura, la religione. Non c'è un filo narrativo a tenerli insieme, se non lo sguardo impietoso del regista e la mimesi proteiforme dei due mattatori, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Se Hieronymus Bosch avesse girato film nell'Italia del boom, probabilmente avrebbe creato qualcosa di molto simile: un'unica, vasta tela brulicante di peccatori, ognuno intrappolato nel proprio piccolo, ridicolo inferno personale. La frammentazione riflette la disintegrazione di un tessuto sociale coeso, la perdita di un centro morale.

Prendiamo l'episodio che incornicia il film, L'educazione sentimentale. Un padre (Tognazzi) insegna al figlioletto non i valori della rettitudine, ma le tecniche della truffa, del cinismo, della sopravvivenza a ogni costo. È un Flaubert alla rovescia, un bildungsroman della disonestà. Il sorriso finale del bambino, che ha imparato la lezione superando il maestro, è uno dei finali più gelidi della storia del cinema italiano. Non c'è condanna esplicita, solo la constatazione di un ciclo che si perpetua. La mostruosità non è un'aberrazione, ma un'eredità. In questo, Risi anticipa la tesi sulla "banalità del male" di Hannah Arendt: il mostro non è un superuomo nietzschiano che sceglie il male con luciferina grandezza, ma un mediocre travet della corruzione che agisce per conformismo, per quieto vivere, per "farcela".

Gassman e Tognazzi sono le due facce della stessa medaglia, due maschere intercambiabili della commedia umana. La loro abilità nel trasfigurarsi, nel passare da un laido impresario di boxe a un onorevole mellifluo, da un soldato vigliacco a un seduttore patetico, non è mero virtuosismo attoriale. È la rappresentazione fisica della tesi del film: il mostro non ha un volto unico, ma mille volti. Sono l'incarnazione di una società in cui l'apparenza – la "bella figura" – ha divorato la sostanza. La loro recitazione è una scarnificazione. In La nobile arte, Gassman, truccato fino a diventare irriconoscibile, è un manager pugilistico che incarna la crudeltà del capitale che sfrutta il corpo proletario fino all'ultima goccia di sangue. La sua maschera grottesca sembra uscita da un'acquaforte dei Caprichos di Goya, dove "il sonno della ragione genera mostri". E qui la ragione dorme, anestetizzata dal benessere incipiente e dall'individualismo sfrenato. La sequenza del pugile suonato, quasi un Cristo pasoliniano delle periferie, che viene spinto di nuovo sul ring per l'ultimo, fatale incontro, è tragedia pura mascherata da commedia nera.

Il film è un'enciclopedia della miseria morale. Nell'episodio Il testimone oculare, un uomo qualunque (Tognazzi) assiste a un omicidio e cerca di fare il suo dovere civico, ma viene stritolato da una macchina burocratica e poliziesca che è più kafkiana dell'incubo stesso. La sua trasformazione da cittadino modello a paranoico perseguitato, costretto a ritrattare per salvarsi la pelle, è una metafora potentissima dell'omertà e della codardia che minano le fondamenta di qualsiasi consorzio civile. Il sistema non protegge l'onesto, ma lo espelle come un corpo estraneo. In questo, I mostri si rivela profetico, anticipando decenni di cronaca italiana. Risi usa la lente del comico per dissezionare meccanismi che sono, in essenza, tragici. La risata che suscita è sempre amara, è la risata che si strozza in gola quando ci si rende conto che stiamo ridendo di noi stessi.

Anche quando l'umorismo sembra prevalere, come nel celebre episodio dei due mendicanti ciechi (I due orfanelli), la satira è spietata. Tognazzi e Gassman, in una performance quasi chapliniana, orchestrano una pantomima perfetta, ma il loro scopo è ingannare il prossimo, sfruttare la pietà per profitto. È la versione aggiornata e ancora più cinica del gatto e la volpe di Collodi. Il mondo del film è un universo senza innocenza, dove anche la carità è una transazione commerciale.

Collocato nel suo contesto storico, I mostri è la risposta acida e disillusa all'ottimismo neorealista del decennio precedente. Se De Sica e Rossellini avevano cercato la dignità e la speranza tra le macerie del dopoguerra, Risi, Scola, Monicelli – i grandi maestri della Commedia all'italiana – trovano il vuoto morale e l'ipocrisia tra i palazzi nuovi e le automobili scintillanti del boom. È la radiografia di una mutazione antropologica, come la definirà Pasolini qualche anno più tardi. I "mostri" sono i nuovi italiani, moderni, spregiudicati, liberati dai vincoli della tradizione ma incapaci di darsi un nuovo codice etico che non sia quello del tornaconto personale. Il bianco e nero crudo e quasi documentaristico della fotografia di Alfio Contini non è una scelta estetica casuale, ma funzionale: spoglia la realtà di ogni abbellimento cromatico, la presenta nella sua essenza scheletrica, come una lastra medica che rivela la malattia sotto la pelle sana.

Rivederlo oggi significa compiere un'operazione quasi archeologica su un passato che, sinistramente, non passa mai. Le dinamiche di potere, la corruzione spicciola, il familismo amorale, la vanità intellettuale (La musa), l'arroganza del potere politico (La giornata dell'onorevole): tutto risuona con una pertinenza inquietante. I mostri è un classico non perché fotografa un'epoca, ma perché trascende quell'epoca per parlare di vizi umani universali e perenni. È un canone del cinema perché ha avuto il coraggio di guardare in faccia il proprio presente e di restituirgli un'immagine deformata ma veritiera, come uno di quegli specchi da luna park che alterano le proporzioni ma rivelano una verità nascosta. È un film che non offre consolazione né catarsi, ma solo la consapevolezza che il mostro più spaventoso è quello che, a fine proiezione, potremmo riconoscere nel nostro stesso riflesso.

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