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I Pugni in Tasca

1965

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Film d’esordio per un regista che non ha mai amato i compromessi, e che anzi, fin da questa sua folgorante opera prima, ha imposto uno sguardo radicale, di sferzante critica sociale e psicologica, destinato a forgiare un percorso autoriale unico nel panorama cinematografico italiano e internazionale. Bellocchio, con "I Pugni in Tasca", non si limita a infrangere le convenzioni; le polverizza, inaugurando una stagione di cinema personalissimo che rifiuta tanto i dettami del neorealismo morente quanto le sterili fascinazioni di un cinema più patinato e conciliante. Il suo approccio è quello di un provocatore intellettuale, intriso delle letture marxiste e psicanalitiche che animavano il fermento culturale degli anni Sessanta, un periodo di profonde tensioni sociali e ribellioni generazionali.

E lo spirito di Bellocchio è perfettamente infuso anche in quest’opera prima dove un dramma familiare è vivisezionato con rigore quasi scientifico, una dissezione clinica che non concede spazio a pietismi o facili consolazioni, mettendone a nudo gli oscuri recessi e le torbide implicazioni. La macchina da presa si fa occhio indagatore, bisturi implacabile che penetra la superficie borghese per rivelare un universo di patologie latenti, di disfunzioni latenti esplose in una violenza che è tanto fisica quanto emotiva.

La storia è ambientata nel piacentino, a Bobbio, luogo che per Bellocchio non è solo una scenografia, ma un vero e proprio epicentro metaforico. La casa in cui si svolge l'azione non è un nido, ma una prigione, un microcosmo claustrofobico in cui la famiglia, archetipo della cellula sociale, è ridotta a un groviglio di nevrosi e interdipendenze malate. Si tratta di una famiglia borghese, una vedova non vedente che vive con i suoi quattro figli, incarnazione di un ceto sociale che, sotto la superficie perbenista, nasconde la putrefazione morale e l'incapacità di confrontarsi con la modernità. È un Borghese con la B maiuscola, quello che Bellocchio intende smascherare, un simbolo di un'Italia in transizione, ancora legata a vecchie gerarchie e valori, ma già minata da un profondo malessere.

Uno di questi figli, Alessandro, ha problemi caratteriali uniti ad una patologia epilettica. La sua epilessia non è una semplice diagnosi medica; essa si configura come la manifestazione somatica di un disagio esistenziale profondo, il ribollire di una psiche imprigionata e ribelle. Alessandro è il fulcro di questa implosione, il catalizzatore della distruzione. In un folle disegno pianificherà l’uccisione della madre e di un fratello menomato mentale adducendo pretesti umanitari, una logica perversa che mescola pietà distorta e desiderio di liberazione, non solo per sé stesso ma per l'intera famiglia, intrappolata in un limbo di non-vita. Comincerà un morboso e logorante lavorio per mettere in atto il suo allucinato progetto di morte, un piano che non è frutto di semplice pazzia, ma di una lucida, seppur malata, consapevolezza dell'insostenibilità della loro esistenza. La sua determinazione ricorda quella di certi personaggi dostoevskiani, mossi da una ragione che, pur deviata, si impone con forza ineluttabile.

Un film che trasuda angoscia e in cui Alessandro è il Deus ex Machina e la vittima sacrificale, il Demiurgo e il Folle. È un "deus ex machina" che non risolve, ma innesca la catastrofe, un burattinaio di un dramma che egli stesso incarna. La sua "follia" è un veicolo per denunciare la "normalità" patologica che lo circonda, una lente d'ingrandimento sulle ipocrisie e le repressioni. Dietro la sua mente malata s’intravede lo sguardo freddo e acuto di Bellocchio, la sua abilità nel muovere i personaggi e nello scarnificarne la sfera psicologica. Il regista non giudica, ma mostra, con una lucidità quasi chirurgica, la progressione ineluttabile verso il baratro, orchestrando ogni movimento, ogni inquadratura, per accentuare la crescente tensione e il senso di soffocamento. L'uso dei primi piani, spesso insistiti e brutali, amplifica questa sensazione, rendendo lo spettatore un testimone scomodo, quasi un complice involontario della tragedia in atto.

Tra tutte le scene che colpiscono ne selezioniamo una forse paradigmatica: la cena. Questa sequenza, un archetipo del "dramma da tavola" che troverà eco in film successivi, da Buñuel a Pasolini, è una vetrina di patologie e repressioni. La famiglia è riunita a tavola e Alessandro si muove nervosamente sulla sedia, un fremito costante che rivela l'energia repressa e la crescente insofferenza. La cinepresa segue i suoi scatti con primi piani brutali del braccio che si appoggia al mobile retrostante, delle gambe che importunano la sorella sotto al tavolo, del viso che scatta contro il fratello reo di mangiare male. Ogni gesto è una scarica elettrica, un sintomo della sua ribellione non ancora esplosa, ma già pulsante. Per tutta la lunga scena regna un silenzio surreale, pesante come un macigno, interrotto soltanto dai miagolii del gatto di casa che si arrampica sul tavolo per rubare il cibo dal piatto della madre cieca. L'animale, con il suo istinto primario e la sua indifferenza alle convenzioni umane, diventa un elemento perturbante, quasi un duplicato del comportamento irrazionale, eppure così autentico, di Alessandro. Il furto di cibo da parte del gatto dalla ciotola della madre cieca non è un dettaglio casuale; è una violazione dell'ordine, un'insubordinazione che prelude alla catastrofe, un'immagine vivida del disfacimento morale che serpeggia tra i membri della famiglia.

Un’opera al nero: tetra e appassionante nelle sue inquietudini, "I Pugni in Tasca" resta un film seminale, non solo per il cinema di Bellocchio ma per l'intera cinematografia europea. La sua forza risiede nella capacità di scavare nelle profondità dell'animo umano, rivelando le pulsioni più oscure e i meccanismi autodistruttivi che possono annidarsi anche nel più convenzionale dei contesti familiari. È un pugno nello stomaco che non smette di far male, un film che, a distanza di decenni, mantiene intatta la sua potenza sovversiva e la sua perturbante attualità, invitando lo spettatore a confrontarsi con il proprio lato oscuro e con le crepe, spesso invisibili, che attraversano la facciata della normalità.

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