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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Icarus

2017

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La metamorfosi, in arte, è quasi sempre il risultato di un piano meticoloso. In letteratura, pensiamo a Kafka, dove il cambiamento è un’allegoria opprimente e calcolata dell'alienazione. Nel cinema, a Cronenberg, dove la mutazione della carne è l'espressione chirurgica di un'ansia psicologica. Il documentario di Bryan Fogel, Icarus, compie invece un’operazione infinitamente più rara e vertiginosa: è un’opera che subisce una metamorfosi non per disegno, ma per una collisione casuale e devastante con la Storia. Inizia come un esperimento di giornalismo gonzo sulla scia di Morgan Spurlock, quasi un’auto-parodia dell'atleta amatoriale che vuole svelare i segreti del doping, e finisce per diventare, suo malgrado, un thriller paranoico degno di Alan J. Pakula, un documento che scoperchia uno dei più colossali inganni statali della storia dello sport.

Il punto di partenza è di una presunzione quasi comica. Bryan Fogel, ciclista dilettante di buon livello, è ossessionato dalla caduta di Lance Armstrong, l'eroe trasformatosi in paria. La sua tesi è semplice: Armstrong è stato beccato non perché il sistema di controllo funzionasse, ma perché ha commesso degli errori. Per dimostrarlo, Fogel decide di diventare la propria cavia. Si sottoporrà a un regime di doping scientificamente avanzato per partecipare alla massacrante gara amatoriale Haute Route, cercando di passare indenne ai test antidoping. È un progetto che poggia su un equilibrio precario tra narcisismo e inchiesta, un’impresa che rischia di affogare nell'autoreferenzialità. Fogel ha bisogno di una guida, un Virgilio che lo accompagni nel suo inferno farmacologico. Dopo una serie di rifiuti da parte di scienziati prudenti, la sua ricerca lo conduce, quasi per caso, a Mosca. Lì, via Skype, entra in scena l'uomo che farà deragliare il film per proiettarlo nella leggenda: il dottor Grigory Rodchenkov.

Rodchenkov non è un semplice personaggio; è un archetipo letterario fatto carne. Direttore del laboratorio antidoping di Mosca, si presenta come un Falstaff scienziato, un uomo corpulento, gioviale, con un senso dell'umorismo contagioso e un'adorabile passione per il suo terrier. Le prime conversazioni tra Fogel e Rodchenkov sono la quintessenza della commedia degli equivoci: il regista americano, serio e metodico, che cerca di carpire i segreti del doping, e lo scienziato russo che, tra una battuta e una citazione letteraria, lo istruisce su come iniettarsi ormoni e congelare campioni di urina pulita con una disinvoltura che rasenta il surreale. Rodchenkov è una figura che sembra uscita da un romanzo di Gogol o di Dostoevskij: un misto di intelligenza affilata, cinismo disincantato e una vulnerabilità quasi infantile. È un uomo che ha presieduto per anni a un sistema di inganni diabolici, ma che ne parla con la leggerezza di chi descrive una ricetta di cucina. In questa prima metà, Icarus è un film affascinante proprio per questo cortocircuito culturale e morale, un buddy movie improbabile tra un ciclista californiano e il Mefistofele dello sport russo.

Poi, nel novembre 2015, tutto cambia. Un report della WADA (Agenzia Mondiale Antidoping) accusa la Russia di doping di stato sistematico e fa un nome: Grigory Rodchenkov, descritto come la mente criminale dietro l'intera operazione. Il film, a questo punto, subisce una torsione violenta. Il tono scanzonato svanisce. Le videochiamate si fanno tese, frammentate. Il volto sorridente di Rodchenkov si trasforma in una maschera di terrore. Teme per la sua vita. Da Virgilio, si trasforma in un testimone braccato, e Fogel, da goffo Dante, diventa il suo unico appiglio, il cronista involontario della sua fuga. Icarus smette di essere un film sul doping per diventare un film dentro la più grande cospirazione sportiva del XXI secolo.

La seconda parte del documentario è un capolavoro di montaggio e di tensione. Fogel, con un coraggio e una lucidità ammirevoli, capisce che il suo progetto iniziale è morto e che tra le mani ha qualcosa di infinitamente più grande. Fa fuggire Rodchenkov negli Stati Uniti e si barrica con lui in un appartamento, trasformando la sua camera da presa nell'unico confessionale possibile per un uomo che possiede segreti in grado di umiliare una superpotenza mondiale. È qui che il film assume le sembianze di un thriller politico anni '70. Le sequenze in cui Rodchenkov, davanti a un computer, spiega meticolosamente come scambiava le provette di urina contaminata attraverso un buco nel muro del laboratorio di Sochi durante le Olimpiadi del 2014, hanno la stessa potenza claustrofobica delle rivelazioni di "Gola Profonda" in Tutti gli uomini del presidente. Non è più sport, è spionaggio. La precisione dei dettagli – i cocktail di steroidi sciolti nel Chivas, i codici segreti dell'FSB, le liste di atleti "protetti" – costruisce un'architettura della menzogna così vasta e perfetta da essere quasi ammirevole nella sua diabolica ingegnosità.

Il titolo, Icarus, si carica di significati sempre più profondi. Chi è Icaro? È Fogel, che con la sua ambizione amatoriale si è avvicinato troppo al sole della geopolitica? O è Rodchenkov, il genio che ha costruito le ali di cera per un'intera nazione e che, nel rivelare il suo stesso inganno, precipita da un'altezza vertiginosa, perdendo tutto – patria, famiglia, identità? O forse, Icaro è l'ideale olimpico stesso, un mito di purezza e lealtà che si è sciolto a contatto con il calore rovente del nazionalismo e del potere. Il film non offre risposte facili, ma lascia che queste domande risuonino a lungo.

Ciò che eleva Icarus al di sopra di una semplice inchiesta giornalistica è la sua involontaria natura meta-testuale. È un film sulla serendipità, sulla capacità del reale di superare qualsiasi sceneggiatura. Fogel non ha mai pianificato di dirigere un thriller. È inciampato nella Storia, e la sua più grande abilità è stata quella di non intralciarla, di lasciarla fluire attraverso il suo obiettivo, diventando egli stesso un personaggio secondario nella sua opera. Il vero protagonista è il processo stesso della rivelazione, la trasformazione di un uomo, Rodchenkov, da ingranaggio del sistema a suo sabotatore. La sua testimonianza non è quella di un eroe senza macchia; è la confessione complessa e dolente di un uomo che, messo alle strette, sceglie la verità non per idealismo puro, ma forse per istinto di sopravvivenza, per un ultimo, disperato atto di autoaffermazione contro lo Stato che prima lo ha usato e poi lo ha condannato.

Inserito nel contesto socio-culturale della seconda metà degli anni Duemiladieci, Icarus è più di un documentario sportivo. È un sintomo perfetto delle nuove guerre fredde, combattute non più con le testate nucleari ma con le informazioni, gli attacchi informatici e la propaganda. La vicenda che racconta è l'eco, in ambito sportivo, di una tensione geopolitica globale, dove la verità è diventata un campo di battaglia. Il film cattura questo zeitgeist con una forza accidentale che nessun'opera di finzione avrebbe potuto replicare. Non prende posizione politica, non emette sentenze storiche; si limita a documentare, con agghiacciante lucidità, la caduta di un uomo e, con essa, la frantumazione di un'illusione collettiva.

Alla fine, la piccola, egoistica ricerca di Bryan Fogel sulla possibilità di barare in una gara di ciclismo si dissolve, inghiottita da una storia che parla di potere, menzogna e del prezzo indicibile della verità. Icarus è un trionfo non pianificato, un incidente cinematografico di rara potenza. È la dimostrazione che a volte le storie più incredibili non sono quelle che cerchiamo, ma quelle da cui veniamo trovati. Un'opera che, nata per volare basso, finisce per toccare il sole, bruciarsi e precipitare, lasciando dietro di sé non ceneri, ma la luce abbagliante di una verità scomoda e necessaria.

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