Il diritto del più forte
1975
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Regista
Rainer Werner Fassbinder non usava la macchina da presa, ma il bisturi. I suoi film non sono narrazioni, ma autopsie a cuore aperto di una società – la Germania Ovest del Miracolo Economico – convinta di aver guarito le proprie ferite mortali e invece divorata da un cancro invisibile: quello del capitale. E se mai c’è stata un’incisione più precisa, spietata e dolorosamente accurata del suo cinema, questa porta il titolo di Faustrecht der Freiheit, Il diritto del più forte. Un titolo che suona come una beffa, una sentenza pronunciata con un sogghigno, perché nel mondo fassbinderiano la forza non risiede nei muscoli o nel coraggio, ma nel saldo del conto in banca e nella padronanza dei codici borghesi.
La storia, nella sua ossatura, è di una semplicità quasi fiabesca, ma di una fiaba nerissima dei fratelli Grimm, spogliata di ogni magia e lasciata a marcire sotto la pioggia acida della modernità. Franz Biberkopf, detto Fox (interpretato dallo stesso Fassbinder, in una delle più radicali e masochistiche performance autobiografiche della storia del cinema), è un ragazzo del popolo, un ex circense rozzo, ingenuo e volgare, che parla un dialetto plebeo e veste con un gusto che è un pugno in un occhio. La sua vita cambia quando una vincita alla lotteria di 500.000 marchi lo proietta, come un sasso lanciato in un salotto di cristalli, nell'orbita di un gruppo di omosessuali dell'alta borghesia. Tra questi c'è Eugen (Peter Chatel), figlio di un industriale, elegante, colto, dall’eloquio forbito e dai modi impeccabili. Inizia così una “storia d’amore” che è in realtà la più lucida e terrificante parabola sulla lotta di classe che il cinema tedesco del dopoguerra abbia mai concepito.
Fassbinder scardina completamente la narrazione del "film a tematica gay". L'omosessualità dei protagonisti non è il tema, ma il campo di battaglia; un laboratorio asettico in cui osservare al microscopio le dinamiche universali di potere, sottomissione e sfruttamento. Fox non viene distrutto perché è gay in una società omofoba; Fox viene divorato perché è un proletario in un mondo borghese. Il suo denaro è il passaporto per entrare in questo mondo, ma la sua identità di classe è un peccato originale che non può essere lavato. Eugen e la sua cerchia non si innamorano di Fox, ma del suo capitale. Diventano i suoi parassiti, convincendolo a investire in affari fallimentari, a comprare un appartamento che non potrà mantenere, a pagare i loro conti, a finanziare il loro stile di vita.
Il processo a cui assistiamo è una sorta di Pigmalione alla rovescia, una colonizzazione culturale spietata. Eugen non vuole elevare Fox, vuole neutralizzarlo. Lo costringe a cambiare abiti, a correggere il modo in cui parla, a scegliere le posate giuste, a leggere i libri "corretti", ad apprezzare l'arte "giusta". Ogni lezione di bon ton è un’espropriazione, ogni regalo costoso è un cappio che si stringe. Fox, innamorato e disperatamente desideroso di essere accettato, si lascia plasmare, perdendo pezzo dopo pezzo la sua stessa essenza, la sua unica, ruvida autenticità. In una delle scene più agghiaccianti, Eugen lo costringe a chiamare la madre per chiederle soldi, umiliandolo e smascherando la sua inadeguatezza con una freddezza da entomologo. L’amore, qui, non è un sentimento, ma la più sofisticata delle sovrastrutture marxiane, uno strumento di controllo e di estrazione del valore.
La regia di Fassbinder, coadiuvata dalla fotografia glaciale di Michael Ballhaus, è di una precisione chirurgica. Gli appartamenti borghesi, immacolati e soffocanti, sono trappole di buon gusto. I personaggi sono costantemente incorniciati da stipiti, riflessi in specchi, osservati attraverso vetri. È un linguaggio visivo che evoca prigionia e narcisismo, dove ogni interazione è una performance e ogni sguardo è un giudizio. Fassbinder saccheggia l'estetica del melodramma di Douglas Sirk, che tanto ammirava, ma la svuota di ogni calore romantico, lasciandone solo lo scheletro formale, una gabbia dorata di colori saturi e composizioni impeccabili in cui i suoi personaggi si sbranano a vicenda. Il risultato è un’opera che ha la bellezza geometrica e la crudeltà di un teorema matematico che dimostra l'impossibilità della felicità.
E poi c'è la dimensione meta-testuale, che rende il film un oggetto quasi radioattivo. Fassbinder che interpreta Fox non è un semplice vezzo d’attore. È un atto di auto-flagellazione, un’esplorazione pubblica delle proprie contraddizioni. Fassbinder, il regista tirannico, il manipolatore che dominava la sua comune di attori e amanti, qui si mette nei panni della vittima per eccellenza. Il film è dedicato ad Armin Meier, suo compagno dell'epoca proveniente da un ambiente proletario, la cui relazione con il regista fu burrascosa e tragicamente speculare a quella del film. Meier si sarebbe suicidato poco dopo, proprio nell'appartamento che era appartenuto a Fassbinder. Questa conoscenza non è un semplice aneddoto da trivia, ma un’ombra che si allunga su ogni fotogramma, trasformando la visione in un'esperienza quasi insostenibile, un documento che confonde i confini tra finzione, confessione e profezia.
Il film può essere letto come una versione moderna e nichilista di un romanzo di Balzac o Zola, dove l'ascesa e la caduta sociale sono dettate da leggi economiche feroci quanto le leggi della natura. L'ingenuità di Fox non è dissimile da quella di un personaggio di Dostoevskij gettato in pasto ai demoni della modernità. Ma a differenza dei grandi romanzieri dell'Ottocento, Fassbinder non concede alcuna speranza, alcuna possibilità di redenzione o di catarsi. L'epilogo è una delle conclusioni più spietate e politicamente potenti della storia del cinema. Abbandonato e senza un soldo, Fox muore per un'overdose di Valium in una stazione della metropolitana, fredda e impersonale come una morgue. Due ragazzini lo trovano e gli rubano l'orologio e il denaro rimasto. Poco dopo, passano due dei suoi ex "amici" borghesi. Lo riconoscono, si guardano, e tirano dritto, disgustati. "Andiamo, puzza già", dice uno.
In questa scena finale, di una desolazione quasi brechtiana, si compie il teorema del film. Fox, una volta prosciugato del suo valore economico, cessa letteralmente di esistere. Non è più un essere umano, ma un rifiuto organico, un disturbo dell'ordine pubblico. Il "diritto del più forte" non è quello di vincere uno scontro, ma quello di poter ignorare il cadavere del più debole. È il diritto di camminare oltre. In questo, Fassbinder realizza la sua critica più radicale non solo al capitalismo, ma a un'intera civiltà che ha sostituito l'etica con l'estetica, la compassione con la convenienza. Il diritto del più forte è un film che non si limita a invecchiare bene; la sua analisi è così lucida e fondamentale che, ad ogni nuova crisi economica, ad ogni nuova ondata di consumismo, diventa più attuale, più necessario, più doloroso. È un capolavoro gelido, un diamante tagliato con il vetro, che continua a ferire lo sguardo e a illuminare le tenebre del nostro presente. Un cadavere squisito che giace nel pantheon del cinema, a ricordarci per sempre il prezzo del biglietto d'ingresso nel mondo dei "vincenti".
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