Il fantasma della libertà
1974
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Regista
Un urlo squarcia la quiete di Toledo occupata dalle truppe napoleoniche. "¡Vivan las caenas!" ("Evviva le catene!"). A gridarlo sono i patrioti spagnoli davanti al plotone d'esecuzione francese. È un'immagine che Luis Buñuel preleva direttamente da un episodio storico e che sembra quasi un'incisione di Goya animata da un demiurgo beffardo. Questo prologo, così storicamente definito e brutalmente realistico, funge da falsa partenza, da depistaggio geniale per il film che segue. Perché dopo questo grido paradossale, che eleva la schiavitù a vessillo di libertà, Il fantasma della libertà abbandona ogni parvenza di coerenza narrativa per trasformarsi in un congegno a staffetta, un meccanismo squisitamente surrealista che incarna la logica associativa del sogno.
La struttura del film è, di per sé, un manifesto. Abbandonando la tirannia di un protagonista e di una trama lineare, Buñuel e il suo sodale Jean-Claude Carrière concepiscono una narrazione rizomatica, che salta da un personaggio all'altro come una farfalla impazzita. La macchina da presa segue una bambinaia, poi l'uomo a cui lei parla, poi i genitori di quest'uomo, poi il loro medico, e così via, in un carosello dell'assurdo che non ha centro né periferia. Questa non è pigrizia scenica, ma una scelta filosofica radicale. Se la libertà è un fantasma, un'illusione, allora anche la forma narrativa che pretende di ordinarla e darle un senso deve essere smascherata come una convenzione arbitraria. Il film si muove per pure associazioni, per contiguità casuali, celebrando quell'hasard objectif (il caso oggettivo) tanto caro ad André Breton, quella coincidenza magica che rivela le connessioni segrete e irrazionali del reale. È il cinema come flusso di coscienza, un'esplorazione dell'inconscio collettivo dove ogni porta apre su una stanza che non ha alcuna relazione logica con la precedente, ricordando la disorientante discesa di Alice nella tana del Bianconiglio, un mondo retto da regole incomprensibili e in costante mutamento.
Buñuel, ormai settantaquattrenne e al culmine della sua tardiva fase francese, ha distillato la sua rabbia iconoclasta in un acido corrosivo ma elegante. La violenza visiva de Un Chien Andalou si è trasmutata in una violenza concettuale, più sottile ma non meno devastante. L'attacco non è più solo alla Chiesa e alla borghesia – suoi bersagli prediletti – ma alle fondamenta stesse del pensiero razionale, alle sovrastrutture che governano i nostri comportamenti e che chiamiamo "civiltà". La sequenza più celebre, quella della cena, è un saggio di semiotica applicata. Un gruppo di distinti borghesi si riunisce per una serata conviviale. Sono tutti seduti su dei water, disposti attorno a un tavolo. Chiacchierano amabilmente di politica e arte, per poi scusarsi e ritirarsi, uno alla volta e con discrezione, in un piccolo gabinetto per consumare il proprio pasto in privata solitudine.
Con un'inversione tanto semplice quanto geniale, Buñuel fa collassare la dicotomia tra pubblico e privato, tra atto fisiologico e rito sociale. Mangiare diventa un atto vergognoso da nascondere, mentre l'evacuazione si trasforma in un'occasione di socialità. L'assurdità della scena non sta nell'atto in sé, ma nella serietà imperturbabile con cui i personaggi aderiscono a questa nuova, incomprensibile etichetta. È qui che il film tocca vette di critica foucaultiana: non sono le nostre azioni a essere intrinsecamente "normali" o "devianti", ma è il reticolo di convenzioni sociali, del tutto arbitrario, a definirle tali. Cambia la convenzione, e la nostra percezione del decoro si capovolge.
Questa decostruzione della logica prosegue inarrestabile. I genitori denunciano alla polizia la scomparsa della figlia, mentre la bambina è lì, presente nella stanza con loro, e persino il commissario le offre dei dolci prima di congedarla. La sua esistenza fisica è negata da una definizione burocratica: se è stata dichiarata "scomparsa", allora non può essere presente. È il trionfo del significante sul significato, un'eco sinistra della pipa di Magritte che "non è una pipa". Il linguaggio non descrive più la realtà, la crea e la sostituisce, anche a costo di negare l'evidenza dei sensi. Allo stesso modo, un distinto signore che spara a casaccio sulla folla da un grattacielo, dopo un processo, viene rilasciato tra gli applausi e le richieste di autografi, trasformato in una celebrità. La trasgressione, se sufficientemente spettacolarizzata, viene riassorbita e neutralizzata dal sistema mediatico, un'intuizione che anticipa di decenni la cultura della fama tossica e del reality show.
Il film è un catalogo di paradossi, un bestiario di comportamenti inspiegabili presentati con la massima naturalezza. Monaci che giocano a poker usando santini come fiches, un commissario di polizia che riceve una telefonata dalla sorella defunta (che lo chiama per dirgli che non era lei al telefono), struzzi che vagano per una camera da letto. Buñuel non offre spiegazioni. Il suo metodo è quello di un entomologo che osserva le bizzarre abitudini di una specie aliena: l'uomo. Questo approccio, che unisce l'umorismo nero a una freddezza quasi documentaristica, lo avvicina sorprendentemente a certi esiti del Teatro dell'Assurdo di Ionesco o, per azzardare un parallelismo più contemporaneo, allo spirito anarchico e frammentario dei Monty Python, il cui Flying Circus stava decostruendo la società britannica con armi simili proprio in quegli anni.
Realizzato nel 1974, Il fantasma della libertà respira l'aria di un'epoca post-utopica. Le speranze rivoluzionarie del Maggio '68 si erano ormai spente, lasciando un senso di disillusione e la consapevolezza che le vere prigioni non sono le barricate o i governi, ma le strutture mentali che abbiamo interiorizzato. La libertà del titolo è un fantasma proprio perché l'atto di cercarla presuppone l'esistenza di un modello, di un'alternativa, mentre Buñuel suggerisce che siamo intrappolati in un sistema di significanti che si rimandano l'un l'altro all'infinito, senza via d'uscita. Il grido finale, lanciato allo zoo da un poliziotto a un altro mentre la folla insorge, è la chiusura del cerchio aperto a Toledo: "Abbasso la libertà!". È l'accettazione finale del paradosso: la richiesta di essere liberati dalla libertà stessa, da questo fardello illusorio che ci costringe a fare scelte all'interno di un sistema già truccato.
Visivamente, il film è di una compostezza classica che rende l'assurdo ancora più straniante. La fotografia di Edmond Richard è pulita, quasi accademica, lontana da ogni estetismo surrealista. È la realtà stessa, osservata con uno sguardo impassibile, a rivelarsi come un delirio. Buñuel non ha bisogno di trucchi o effetti speciali; gli basta orchestrare situazioni in cui le nostre certezze più basilari (la causalità, l'identità, il decoro) vengono sistematicamente violate.
Il fantasma della libertà è il testamento intellettuale di un vecchio anarchico che ha smesso di lanciare bombe per dedicarsi a un sabotaggio più profondo: quello del senso comune. È un'opera che non invecchia, perché non attacca un costume o una politica specifica, ma la natura stessa del nostro essere animali sociali. È un invito a ridere delle nostre gabbie invisibili, a riconoscere l'assurdità dei rituali che scandiscono le nostre vite, e a sospettare che, forse, la logica non sia altro che il più diffuso dei disturbi mentali. E mentre un fuciliere napoleonico bacia la statua di pietra di una nobildonna, e uno struzzo osserva impassibile il caos dal suo trespolo, ci rendiamo conto che l'unica, vera libertà concessaci è quella di contemplare, sbigottiti e divertiti, l'inspiegabile spettacolo dell'esistenza.
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