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Il funerale delle rose

1969

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Un lampo stroboscopico. Un occhio che fissa, dilatato. Un'accelerazione folle che deforma il tempo. Guardare Il funerale delle rose ( Bara no Sōretsu) di Toshio Matsumoto oggi non è un'operazione di archeologia cinematografica; è come subire una scarica elettrica direttamente nel nervo ottico, un'iniezione di adrenalina culturale che scavalca cinquant'anni di storia del cinema e arriva con la violenza intatta di una deflagrazione. Uscito nel 1969, anno sismografo di un mondo sull'orlo di una crisi di nervi collettiva, il film di Matsumoto è il sismografo stesso, la registrazione tellurica di un'epoca e di un luogo: la Tokyo underground del quartiere di Shinjuku, epicentro del fermento controculturale, artistico e politico del Giappone.

Matsumoto, figura poliedrica e radicale, non si limita a girare un film. Egli orchestra un happening caotico, un sabotaggio delle forme narrative tradizionali, un assalto frontale alla nozione stessa di rappresentazione. La pellicola è un caleidoscopio frantumato in cui si mescolano mockumentary, avanguardia teatrale, fiction drammatica, citazioni pop e una furia iconoclasta che fa a pezzi il cinema per ricostruirlo secondo le proprie, febbricitanti regole. Al centro di questo vortice c'è Eddie, interpretato da un androgino e magnetico Peter (alias Shinnosuke Ikehata), figura tragica e moderna che lavora al Genet, un bar per travestiti. La trama, se di trama si può parlare in senso convenzionale, è un'anamorfosi sfacciata e brutale dell'Edipo Re di Sofocle. Eddie è innamorato del proprietario del bar, Gonda, che è anche l'amante della "madame" del locale, Leda. La rivalità tra Eddie e Leda per l'affetto di Gonda sfocia in tragedia, ma è solo la superficie di un abisso psicanalitico e mitologico ben più profondo. Eddie, infatti, senza saperlo, ha una relazione con il proprio padre (Gonda) dopo aver causato la morte della propria madre.

Ma ridurre Il funerale delle rose al suo scheletro edipico sarebbe come descrivere l'Ulisse di Joyce come "la storia di un tizio che passa una giornata a Dublino". La grandezza del film risiede nel modo in cui il mito antico viene fatto esplodere dall'interno, i suoi frammenti incandescenti proiettati contro lo specchio della modernità. La tragedia greca, con il suo Fato ineluttabile e la sua architettura morale, viene qui trascinata nel fango e nel neon di Shinjuku, spogliata di ogni sacralità e ricaricata di una disperazione tutta novecentesca. Non ci sono dèi a tessere la tela del destino di Eddie, ma un ciclo di traumi psicologici, di violenza familiare e di identità performate fino al punto di rottura. La rivelazione finale e il conseguente accecamento non sono una punizione divina, ma l'implosione logica e terribile di un'esistenza costruita sulla menzogna e sulla fuga da sé.

Lo stile di Matsumoto è un atto di guerriglia semiotica. Le interviste "documentaristiche" ai travestiti che popolano il film rompono continuamente la quarta parete, creando un effetto di straniamento che è al contempo brechtiano e profondamente intimo. Questi personaggi parlano delle loro vite, dei loro desideri, delle operazioni chirurgiche, con una franchezza disarmante. Fiction e realtà si contaminano, si sovrappongono, fino a diventare indistinguibili. Chi è Eddie? È il personaggio di un film, l'Edipo inconsapevole, o è Peter, l'attore che lo interpreta? Il film stesso sembra porre questa domanda, mostrando la troupe cinematografica al lavoro, esponendo i propri meccanismi interni, in un gesto metacinematografico che anticipa decenni di riflessioni postmoderne. Un'eco godardiana, certo, ma svuotata del suo intellettualismo parigino e riempita della carnalità disperata di Shinjuku. Laddove Godard dissezionava il linguaggio, Matsumoto lo fa a brandelli con una furia viscerale.

È impossibile non pensare, guardando le sequenze accelerate al ritmo di musica classica, all'influenza diretta e dichiarata che questo film ebbe su Stanley Kubrick per il suo Arancia Meccanica. Le scorribande notturne, le orge stilizzate, le scene di sesso e violenza velocizzate per creare un effetto grottesco e disturbante: tutto era già qui, in Bara no Sōretsu, due anni prima. Ma se in Kubrick l'effetto è di una lucidità glaciale, quasi chirurgica, in Matsumoto c'è una vitalità febbrile, un'energia grezza che sembra scaturire direttamente dalle proteste studentesche e dalla liberazione sessuale che infiammavano le strade di Tokyo in quegli anni. Il film è un documento vivo di quell'istante culturale, un ritratto di una comunità marginalizzata che si appropria del proprio corpo e della propria rappresentazione, sfidando le rigide convenzioni della società giapponese.

La "rosa" del titolo è un simbolo polisemico e cruciale. È la rosa che i travestiti si appuntano al petto, simbolo di una femminilità costruita, artificiale e fiera. È la bellezza effimera e spinosa della loro esistenza. Ma è anche un termine gergale, "bara", che in certi contesti può riferirsi ai ragazzi gay. Il funerale è quindi quello di un'identità, o forse di un'intera subcultura che, nel momento stesso in cui esplode in tutta la sua vitalità sullo schermo, sta già celebrando il proprio rito funebre, consapevole della propria fragilità e della violenza del mondo esterno. È un funerale per l'innocenza perduta, per il fallimento del sogno utopico degli anni '60, che nel film si manifesta in una sequenza psichedelica di un happening artistico che degenera in un caos senza senso.

L'analisi di Matsumoto va oltre la semplice cronaca sociologica. Scava nel nucleo ontologico dell'identità. Cosa significa "essere" un uomo o una donna? È una questione di biologia, di abiti, di performance? Il film risponde mostrando che ogni identità è una maschera, un costrutto. Persino gli studenti rivoluzionari, con le loro pose intellettuali e i loro slogan politici, vengono mostrati come attori di un altro tipo di teatro. In una scena geniale, un regista d'avanguardia sta girando un film dentro il film, e il suo attore si lamenta della falsità della recitazione, in un cortocircuito metatestuale che polverizza ogni certezza. L'unica verità sembra essere quella del trauma, del dolore che riemerge dal passato per distruggere il presente, come un fiume carsico che infine trova uno sfogo violento.

Il finale è tra i più sconvolgenti della storia del cinema. La scoperta della verità incestuosa non porta a un'agnizione catartica, ma a un'esplosione di violenza primordiale. L'atto di Eddie di cavarsi gli occhi con lo stesso coltello con cui ha ucciso la madre e con cui la madre si è suicidata è un urlo che trafigge lo schermo. È la chiusura del cerchio, la realizzazione che il ciclo di violenza non può essere spezzato. L'immagine finale, con i due bulbi oculari che ci fissano da terra, è un atto d'accusa contro lo spettatore, chiamato a testimoniare un orrore che trascende la finzione e tocca le corde più profonde della tragedia umana.

Il funerale delle rose non è un film facile. È un'opera esigente, frammentaria, a tratti respingente nella sua brutalità. Ma è una di quelle esperienze cinematografiche totali che ridefiniscono i confini del possibile. È una singolarità culturale, un punto di collasso in cui convergono il teatro di Artaud, la Pop Art di Warhol, la filosofia di Genet e la tragedia di Sofocle, il tutto filtrato attraverso una sensibilità unicamente giapponese e irrevocabilmente moderna. È un'opera di termìte culturale che ha eroso dall'interno le fondamenta del cinema narrativo, lasciando dietro di sé non rovine, ma lo spazio aperto per un cinema nuovo, più libero, più pericoloso. Un capolavoro assoluto, un frammento di specchio rotto che ancora oggi riflette, con spietata lucidità, il nostro volto deforme.

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