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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il silenzio

1963

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Un treno fende un paesaggio che ha già capitolato all'assenza. Non è una nazione, quella che scorre fuori dal finestrino nel prologo de Il silenzio; è uno stato della mente, una topografia dell'anima che Ingmar Bergman, qui al culmine del suo nichilismo teologico, mappa con la precisione di un cartografo dell'inferno. Le geometrie spettrali della città di Timoka, dove i personaggi si areneranno, sembrano estrapolate da una tela metafisica di de Chirico, ma svuotate di ogni enigma romantico e riempite solo dal peso opprimente di un cielo vuoto. È il capolinea del cosiddetto "trittico del silenzio di Dio", e se Come in uno specchio interrogava la fede attraverso la follia e Luci d'inverno ne constatava il gelido congedo, qui Bergman non si limita a registrare l'assenza divina: ne esegue l'autopsia spirituale, trovando al suo posto solo la carne, disperata, febbricitante e mortale.

Il film è un Kammerspiel claustrofobico, sigillato nell'atmosfera stagnante di una suite d'albergo che diventa un purgatorio esistenziale. Da un lato, Ester (Ingrid Thulin), la traduttrice colta, l'intellettuale malata terminale, aggrappata alle parole come a un ultimo, inutile appiglio contro il disfacimento del corpo e dello spirito. La sua malattia non è solo fisica; è la malattia della ragione in un universo irrazionale, il cancro della coscienza in un mondo che ha smesso di comunicare. Dall'altro, sua sorella Anna (Gunnel Lindblom), la forza primordiale, la sensualità che si ribella al logos attraverso l'eros. Anna non cerca di capire, cerca di sentire. Il suo corpo è la sua unica, disperata affermazione di esistenza, un'arma contundente contro il vuoto che la circonda e che Ester tenta, invano, di verbalizzare. In mezzo, come un sismografo muto delle loro scosse interiori, c'è Johan (Jörgen Lindström), il figlio di Anna.

Bergman orchestra un duello che trascende la psicologia familiare per diventare una contesa filosofica di statura quasi dostoevskiana. Ester è l'intelletto che, come Raskol'nikov dopo il delitto, scopre l'inutilità della propria sovrastruttura mentale di fronte all'orrore del reale. Le sue traduzioni, il suo disperato tentativo di creare ponti semantici, si infrangono contro il muro di una lingua straniera e incomprensibile, quella di Timoka, che è metafora di ogni linguaggio, incapace di suturare la ferita della solitudine. Anna, al contrario, è una creatura del sottosuolo, che risponde alla crisi con un balbettio primordiale: il sesso. La sua ricerca febbrile di contatto fisico con uno sconosciuto cameriere non è lussuria, ma una forma estrema di preghiera corporea, un rito pagano celebrato sull'altare di un Dio defunto. È la risposta carnale alla domanda metafisica di Ester. Le due sorelle non sono semplicemente personaggi, ma incarnazioni di principi inconciliabili, lo spirito e la carne che si dilaniano a vicenda come in un dramma di Strindberg riscritto da Samuel Beckett.

E poi c'è Johan. Il suo peregrinare silenzioso nei corridoi dell'albergo è il vero cuore visivo e tematico del film. È l'osservatore innocente, l'Adamo prima della caduta in un Eden già in rovina. La sua prospettiva è la nostra: un tentativo di decifrare i geroglifici incomprensibili del mondo adulto. Quando incontra una troupe di attori nani, vestiti in abiti barocchi, la sequenza assume i contorni di un'apparizione felliniana (8½, uscito nello stesso anno, è il contraltare solare e caotico alla disperazione ermetica di Bergman), ma qui la fantasia non è una via di fuga, bensì un'ulteriore conferma dell'assurdo. Il mondo di Johan è un teatro grottesco dove i carri armati sfilano per strada con la stessa nonchalance con cui un anziano cameriere serve la colazione. È l'universo kafkiano visto con gli occhi di un bambino, un processo di cui ignora l'accusa. Bergman, attraverso Johan, sembra suggerire che l'unica reazione possibile al silenzio del mondo sia un silenzio ancora più profondo, uno sguardo puro che registra senza giudicare, che accoglie l'orrore e la meraviglia con la stessa, attonita immobilità.

La fotografia di Sven Nykvist, collaboratore essenziale, è un miracolo di espressionismo da camera. Non si limita a illuminare la scena, ma la scava, la incide. La luce che filtra dalle finestre non redime, ma espone la polvere, il sudore, la trama della pelle malata di Ester, la superficie tesa dei muscoli di Anna. Ogni inquadratura è un saggio sulla materialità della sofferenza. Il bianco e nero non è una scelta estetica, ma teologica: è la gamma cromatica di un mondo post-divino, fatto solo di luce accecante e buio assoluto, senza le sfumature della grazia. Il sonoro è altrettanto radicale. Il "silenzio" del titolo è una partitura assordante composta dal respiro affannoso di Ester, dal ticchettio degli orologi, dal ronzio delle tubature, dai suoni umidi e brutali degli amplessi di Anna. Sono i rumori del corpo, l'unica lingua rimasta dopo il collasso della parola e della fede.

Quando uscì, nel 1963, Il silenzio provocò uno scandalo epocale, non tanto per la sua nudità, quanto per la sua onestà brutale. La scena di masturbazione di Ester, così clinicamente disperata, non aveva nulla di erotico; era il gesto estremo di un'anima che cercava di sentirsi viva nel corpo che la stava tradendo, un cortocircuito tra mente e carne. La critica e la censura videro pornografia dove Bergman aveva messo in scena la più desolata delle preghiere. Ma la vera oscenità del film, la sua sfida intollerabile, risiedeva nella sua totale assenza di consolazione. Non c'è catarsi, non c'è redenzione, non c'è neppure la tragica nobiltà della sconfitta. C'è solo l'attesa in una stanza, mentre fuori il mondo, forse, si prepara a un'altra guerra. È il mondo de La terra desolata di T.S. Eliot, un cumulo di immagini infrante dove il sole batte e i morti non riescono nemmeno a decomporsi.

Alla fine, Ester lascia a Johan un foglietto con alcune parole tradotte dalla lingua di Timoka, tra cui "hadjek", che significa spirito, anima. È un lascito testamentario, un ultimo, patetico tentativo dell'intelletto di trasmettere un significato, un frammento da puntellare contro le proprie rovine. Ma il treno riparte, portando via Anna e Johan verso un altrove che non promette nulla di diverso. Il film non finisce, si interrompe, lasciandoci con l'eco di quel silenzio, che non è pace, ma il rumore bianco dell'universo che ha smesso di parlarci. Il silenzio è un'opera terminale, un'estetica da terra bruciata che segna un punto di non ritorno. Non lo si "guarda", lo si esperisce come una malattia, una febbre dell'anima che, una volta contratta, lascia una cicatrice permanente sulla nostra retina di spettatori. È il capolavoro di un artista che ha avuto il coraggio di fissare l'abisso e di registrarne, con una lucidità terrificante, la perfetta, assordante vacuità.

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