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Il viaggio di mamma Krausen verso la felicità

1929

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Regista

Un titolo come "Il viaggio di Mamma Krausen verso la felicità" (Mutter Krausens Fahrt ins Glück) possiede la cadenza ingannevole di una fiaba dei fratelli Grimm, o forse di un rassicurante dramma da focolare. Evoca immagini di redenzione, di un percorso irto di ostacoli che conduce a una meritata serenità. Ma siamo a Berlino, nel 1929. E la cinepresa di Piel Jutzi non è uno strumento per tessere favole, bensì un bisturi affilato, un microscopio puntato su un campione di tessuto sociale in piena cancrena. La felicità, in questo universo, non è una destinazione; è un miraggio crudele, un’iscrizione ironica sulla lapide di un’intera classe sociale.

Il film si pianta con ferocia documentaristica nel quartiere operaio di Wedding, un formicaio di cortili umidi e appartamenti sovraffollati, e lo fa con uno sguardo che ha già divorziato dall’isteria espressionista di un Caligari per sposare in pieno la spietata lucidità della Neue Sachlichkeit, la Nuova Oggettività. Se le tele di Otto Dix e George Grosz erano una dissezione quasi clinica delle deformità morali e fisiche della società di Weimar, il film di Jutzi ne è l'equivalente cinematografico. La sua macchina da presa non deforma, non allucina; al contrario, registra con una precisione che diventa essa stessa una forma di accusa. Ogni crepa nel muro, ogni macchia di umidità, ogni volto segnato dalla fatica e dalla rassegnazione è catturato con un'oggettività che preclude ogni sentimentalismo. Questo non è il proletariato eroico e stilizzato di Eisenstein, ma un'umanità logorata, intrappolata in un ciclo di miseria che sembra avere la stessa ineluttabilità di una legge fisica.

Al centro di questo microcosmo c’è Mamma Krausen (un’incredibile Alexandra Schmitt), vedova che si guadagna da vivere consegnando giornali e affittando posti letto nel suo misero appartamento. La sua casa non è un rifugio, ma un crocevia di disperazione. Con lei vivono la figlia Erna, il figlio Paul e una coppia di sottolocatori: una prostituta (interpretata da Ilse Trautschold) e il suo protettore. L'appartamento stesso diventa un personaggio, un organismo claustrofobico i cui confini porosi non riescono a tenere fuori il marciume del mondo esterno. È una topografia morale che riecheggia in modo impressionante quella descritta da Alfred Döblin nel suo capolavoro coevo, Berlin Alexanderplatz, pubblicato proprio in quello stesso, fatidico 1929. Come il Franz Biberkopf di Döblin, i personaggi di Jutzi sono pedine mosse da forze economiche e sociali che non comprendono né controllano. Il loro ambiente non è uno sfondo, ma un destino. È il naturalismo di Émile Zola traslato nel caos urbano della metropoli tedesca, un gorgo deterministico dove il libero arbitrio è un lusso per chi può permetterselo.

La narrazione si innesca quando il figlio di Mamma Krausen, Paul, le ruba i soldi faticosamente raccolti per pagare i giornali, spingendola in un debito da cui non può più uscire. Da questo singolo atto di debolezza si dipana la tragedia, che segue due traiettorie divergenti ma ugualmente emblematiche del bivio storico che la Germania stava affrontando. Da un lato, la via dell'individualismo predatorio e nichilista: Paul, sedotto dal piccolo criminale che vive in casa, sprofonda in un mondo di furti e violenza, credendo di poter forzare la propria via d'uscita dalla povertà. È un'illusione di potere che si traduce in autodistruzione. Dall'altro lato, la via dell'azione politica collettiva: la figlia Erna, innamorata di un operaio comunista, trova nella solidarietà di classe e nella disciplina del partito un'alternativa strutturata alla disperazione.

Jutzi, provenendo dal cinema documentario e lavorando sotto l'egida della casa di produzione di sinistra Prometheus Film, non nasconde le proprie simpatie. Ma il suo genio sta nel tradurre l'ideologia in un linguaggio puramente cinematografico, a tratti quasi precursore di un neorealismo che vedrà la luce solo quindici anni dopo. Le scene delle manifestazioni operaie sono girate con un senso di ordine e di potenza quasi geometrica, una massa compatta che marcia verso un futuro possibile. In netto contrasto, le sequenze nel locale notturno dove Paul e i suoi complici pianificano il colpo sono un caos di fumo, alcol e corpi scomposti, un'immagine visiva della dissoluzione morale. Non è un pamphlet urlato; è una tesi dimostrata per immagini, un montaggio intellettuale che affianca due destini possibili, lasciando che sia la loro stessa rappresentazione a parlare.

E poi c'è lei, Mamma Krausen. Esclusa da entrambe le soluzioni. Troppo anziana e radicata nelle vecchie tradizioni di onore e rispettabilità per comprendere l'orizzonte della lotta di classe; troppo debole e moralmente integra per abbracciare la via del crimine. La sua è una tragedia squisitamente novecentesca: quella dell'individuo schiacciato tra le macerie di un vecchio mondo e la violenta nascita di uno nuovo, senza possedere gli strumenti per navigare il cambiamento. Il suo "viaggio verso la felicità" è una discesa agli inferi che culmina in una delle sequenze più strazianti e indimenticabili della storia del cinema muto. Mentre fuori dalle finestre le manifestazioni operaie sfilano al suono di una promessa di rinnovamento, Mamma Krausen, sfrattata e disonorata, compie l'ultimo, disperato atto di cura e di annientamento. Accompagnata dalla figlia piccola della prostituta, l'unica creatura ancora più innocente e impotente di lei, apre il rubinetto del gas. Il suo non è un suicidio teatrale, ma un gesto metodico, quasi domestico. La felicità, per lei, si rivela essere l'oblio, la fine del dolore. È il silenzio finale di chi non ha più una voce né un posto nel mondo.

Quest'opera è un sismografo che registra le ultime scosse di un'epoca. Realizzato alla vigilia del crollo di Wall Street, che avrebbe dato il colpo di grazia alla già fragile Repubblica di Weimar e spianato la strada all'ascesa del nazionalsocialismo, Mutter Krausens è un documento di un'urgenza quasi profetica. È il canto del cigno del cinema proletario tedesco, un filone che sarebbe stato presto messo a tacere dalla censura e dalla storia. Guardarlo oggi significa compiere un'operazione di archeologia culturale, dissotterrare un capolavoro che ci mostra non solo com'era il mondo, ma anche come avrebbe potuto essere. La sua estetica cruda, la sua recitazione anti-drammatica (molti attori erano non professionisti presi dalla strada), il suo rifiuto di ogni consolazione ne fanno un'opera di una modernità sconcertante. È un film che non chiede compassione, ma comprensione. Un'analisi spietata e, proprio per questo, profondamente umana, del punto di rottura in cui la speranza si spegne e l'unica via d'uscita diventa una porta chiusa a chiave dall'interno. Il viaggio è terminato. La felicità era una menzogna scritta sul biglietto.

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