Il volto di un altro
1966
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Regista
Scorticare la pellicola del reale per osservare il vuoto che pulsa al di sotto. Potrebbe essere questa la dichiarazione d'intenti, il manifesto non scritto, che lega indissolubilmente il cineasta Hiroshi Teshigahara e lo scrittore Kōbō Abe, un sodalizio artistico che ha generato alcune delle più lancinanti e cerebrali esplorazioni dell'alienazione novecentesca. Se La donna di sabbia era un'allegoria kafkiana sulla prigionia dell'esistenza, Il volto di un altro (Tanin no Kao, 1966) ne è il logico e terrificante corollario: un'incursione chirurgica nell'ontologia stessa dell'identità, un trattato di fenomenologia mascherato da thriller psicologico. Il film si apre non con un evento, ma con le sue conseguenze: le bende che avvolgono completamente il volto dell'ingegnere Okuyama, sfigurato in un incidente di laboratorio. Non vediamo mai il suo volto originario, né quello deturpato. Esiste solo in relazione a un'assenza, a un sudario di garza che lo trasforma in un'icona modernista del dolore, un Uomo Invisibile wellesiano privato però di qualsiasi potere, schiacciato da una visibilità assoluta della sua stessa cancellazione.
Teshigahara, figlio del fondatore della scuola di ikebana Sōgetsu-ryū, dirige con la precisione di chi compone un'installazione d'arte. Le sue inquadrature sono sculture di luce e ombra, spazi architettonici che opprimono e definiscono i personaggi. Il laboratorio del dottor Hira, dove Okuyama si reca per farsi costruire una maschera perfetta, non è l'antro di un novello Frankenstein gotico, ma un asettico tempio della scienza, tra grafici anatomici, calchi in gesso e liquidi ambrati. È un'estetica che sembra anticipare di un decennio le ossessioni bio-meccaniche di David Cronenberg, ma spogliata del body horror più viscerale per concentrarsi su un orrore puramente intellettuale. La deturpazione di Okuyama non è un'eziologia da B-movie; è un catalizzatore filosofico. La domanda che il film pone, fin dai primi minuti, è devastante nella sua semplicità: se il volto è il garante del nostro io sociale, il passaporto con cui attraversiamo la frontiera delle relazioni umane, cosa rimane di noi quando ci viene revocato?
La maschera, quindi, non è un semplice artificio prostetico. È un costrutto teorico, una tesi di laurea sulla possibilità di esistere. Realizzata con una perizia inquietante, dotata di una sua "vita" artificiale, essa diventa per Okuyama un'opportunità di rinascita, ma anche una porta verso un abisso solipsistico. Indossandola, egli non recupera il suo vecchio sé; ne crea uno completamente nuovo, un altro da sé che può osservare il mondo, e persino sua moglie, con il distacco di uno spettatore. È qui che il film compie il suo scarto più geniale. La narrazione si sdoppia. Okuyama, ora un estraneo dal volto affascinante e anonimo, decide di mettere alla prova la fedeltà della moglie, tentando di sedurla. La vicenda assume i contorni di un dramma da camera perverso, un chiasmo emotivo che ricorda il rigore geometrico e crudele di un film di Fassbinder o la fredda analisi dei rapporti di coppia di un Bergman virato al nero. Tatsuya Nakadai, attore feticcio di Kobayashi e Kurosawa, offre una performance magistrale, recitando per gran parte del film solo con la voce e il corpo, e poi sdoppiandosi nel ruolo di sé stesso mascherato, un doppio che è al contempo liberazione e condanna.
Il parallelismo più immediato, e forse più nerd, non è tanto con il cinema, quanto con la letteratura di Philip K. Dick. Okuyama, come i protagonisti dickiani, vive uno scollamento radicale tra la percezione di sé e la realtà oggettiva. La maschera è la sua "sostanza D" di Un oscuro scrutare, uno strumento che dovrebbe permettergli di navigare l'esterno ma che finisce per corrodere irrimediabilmente l'interno. Entrambe le opere esplorano la terrificante possibilità che l'identità non sia un nucleo stabile, ma una performance fragile, un accordo tacito che può essere stracciato in ogni momento. Teshigahara, però, non si limita a illustrare il romanzo di Abe. Lo espande, lo complica, inserendo una seconda linea narrativa, un film-nel-film che Okuyama guarda in un cinema. Racconta la storia di una giovane donna dal volto sfigurato da una cicatrice (una keloid), un'altra vittima della superficie, una hibakusha metaforica che porta sulla pelle il segno di un trauma. Questa parentesi, che rischiava di essere un'appendice didascalica, diventa invece uno specchio deformante che universalizza la condizione di Okuyama. La sua non è più una tragedia individuale, ma un frammento del più vasto dramma della condizione umana nell'era della metropoli anonima e della riproducibilità tecnica del sé.
Questa riflessione si inserisce perfettamente nel contesto della Nūberu bāgu, la new wave giapponese. Come i suoi contemporanei Oshima e Imamura, Teshigahara smantella le convenzioni del cinema classico, ma il suo approccio è meno frontale, meno politico in senso stretto. La sua è una rivoluzione della forma e del pensiero. Il Giappone degli anni '60, in pieno boom economico, stava vivendo una crisi identitaria profonda, sospeso tra le macerie, fisiche e psicologiche, della guerra e la corsa verso una modernità occidentalizzata che minacciava di cancellare i tratti tradizionali. Il volto di un altro cattura questa ansia con una potenza visiva sbalorditiva. I grattacieli di Tokyo, le vetrine che riflettono volti anonimi, le folle indistinte sono la vera scenografia del film. Non è un caso che il film si concluda con Okuyama che, dopo il fallimento del suo esperimento e la definitiva perdita di sé, si dissolve in una folla di persone che, una dopo l'altra, rivelano di indossare maschere. La sua patologia è diventata la norma. La società è un ballo in maschera perenne.
La colonna sonora di Tōru Takemitsu, un patchwork avanguardistico di musica concreta, valzer distorti e silenzi carichi di tensione, è l'ultimo strato di questa complessa opera. Non accompagna l'azione, ma la commenta, la interroga, creando un paesaggio sonoro che è l'equivalente uditivo dello smarrimento del protagonista. La musica di Takemitsu è il battito cardiaco irregolare di un'anima che ha perso il suo involucro. Il volto di un altro è un'esperienza cinematografica totale, un'opera che sfida lo spettatore a ogni inquadratura, costringendolo a interrogarsi sulla natura della propria identità. Non offre risposte facili, solo domande sempre più complesse. È un bisturi filosofico che incide la superficie liscia dello schermo per mostrare non il sangue, ma il vuoto concettuale che ci definisce. Un capolavoro assoluto, la cui visione non è semplicemente consigliata, ma necessaria per chiunque creda che il cinema possa essere una forma di pensiero.
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