Johnny Guitar
1954
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Regista
Un paesaggio dell'Arizona che non assomiglia a nessun luogo sulla Terra, ma piuttosto a un fondale espressionista dipinto da un'anima in fiamme. Rocce rosso sangue, cieli di un turchese innaturale, interni che pulsano di gialli e verdi acidi. In questa scenografia allucinata, una donna vestita da uomo attende, non un eroe, ma il fantasma di un amore passato, un pistolero che ha barattato la Colt con una chitarra. Nicholas Ray, nel 1954, non gira un western. Gira un'opera barocca, un melodramma da camera travestito da cavalcata, una tragedia greca ambientata in un saloon che assomiglia più a una caverna freudiana che a un avamposto della Frontiera. Johnny Guitar è il sogno febbrile del genere western, un'autopsia delle sue convenzioni condotta con la precisione di un bisturi e la passione di un amante tradito.
Il film disintegra l'archetipo fordiano del West come spazio epico di costruzione nazionale. Qui lo spazio non è aperto e promettente, ma claustrofobico e nevrotico. Il saloon di Vienna, il personaggio titanico interpretato da una Joan Crawford al culmine del suo divismo statuario, è incastonato nella roccia, un'architettura impossibile che è al contempo fortezza, utero e palcoscenico. Ray, che prima di diventare regista fu allievo di Frank Lloyd Wright, concepisce gli spazi non come contenitori passivi dell'azione, ma come proiezioni esterne della psiche dei personaggi. Il saloon di Vienna è il suo mondo interiore: un rifugio precario, assediato dall'esterno da forze irrazionali, un luogo dove si suona il pianoforte e si gioca d'azzardo mentre fuori ulula la furia puritana. La Frontiera di Ray non è un luogo da civilizzare, ma un'arena psicologica dove si scontrano pulsioni primordiali.
Al centro di questa arena non ci sono uomini, ma due donne. Se il western classico è un genere eminentemente fallico, un perpetuo misurarsi di virilità attraverso la rapidità della pistola e la vastità delle terre possedute, Johnny Guitar opera un ribaltamento radicale e sconvolgente. Gli uomini sono figure ancillari, quasi decorative. Johnny "Guitar" Logan (Sterling Hayden), l'eroe eponimo, è un personaggio reattivo, un uomo spezzato che ha sublimato la sua violenza nella musica. È Vienna a possedere la terra, a sfidare il potere, a dettare le regole. È lei la vera forza motrice della narrazione. E la sua nemesi non è un rude allevatore o un bandito assetato d'oro, ma un'altra donna: Emma Small (Mercedes McCambridge), la cui furia moralizzatrice maschera una frustrazione sessuale tanto violenta quanto repressa.
Lo scontro tra Vienna ed Emma è il vero duello del film. È una guerra che trascende la semplice rivalità per un uomo (il Dancin' Kid, mero catalizzatore) e diventa uno scontro tra due visioni del mondo, due archetipi femminili. Vienna, con i suoi abiti prima maschili e poi di un bianco immacolato, rappresenta la modernità, l'indipendenza, una sessualità consapevole e imprenditoriale. Emma, perennemente vestita di nero, incarna l'isteria repressiva, la gelosia che si fa ideologia, la paura del desiderio che si trasforma in violenza collettiva. Il loro odio reciproco, amplificato dalla leggendaria animosità tra le due attrici sul set – si narra che una Crawford alcolizzata e dispotica abbia gettato i costumi della McCambridge in mezzo a una strada – ha una carica tellurica, una visceralità che l'obiettivo di Ray cattura con primi piani quasi sadici. La scena del linciaggio mancato, con Emma che arringa la folla come una Torquemada in gonnella, è una delle rappresentazioni più terrificanti della psicologia della massa mai viste al cinema.
È impossibile, infatti, scindere Johnny Guitar dal suo contesto storico. Realizzato all'apice della caccia alle streghe maccartista, il film è una delle più potenti e scoperte allegorie della paranoia che attanagliava Hollywood e l'America. Emma Small è Joseph McCarthy, la sua posse di cittadini "perbene" è il braccio armato del Comitato per le Attività Antiamericane (HUAC), e Vienna è l'individuo che si rifiuta di "fare nomi", di piegarsi all'isteria collettiva per salvarsi. La richiesta che Johnny fa a Vienna – "Lie to me. Tell me you've waited for me all these years" – è un eco disperato di un mondo in cui la menzogna è diventata l'unica moneta di sopravvivenza. Lo stesso Sterling Hayden aveva testimoniato davanti all'HUAC, facendo i nomi di alcuni colleghi, un atto di cui si pentì per tutta la vita. La sua interpretazione di un uomo che vuole fuggire dal proprio passato violento acquista così una risonanza tragica, quasi meta-testuale. Ray non fa un film politico; fa un film sulla psicosi della politica, sulla febbre che trasforma i vicini in delatori e la giustizia in uno spettacolo di piazza.
Questa dimensione febbrile è esaltata da una messa in scena deliberatamente anti-naturalistica. I dialoghi, scritti da Philip Yordan, non sono conversazioni, ma declamazioni, aforismi taglienti e sentenze poetiche che sembrano usciti da una tragedia di Jean Racine. "Un uomo può mentire, rubare e persino uccidere," dice Vienna, "ma finché lo fa per una buona ragione, non è un uomo cattivo". È un codice morale che non appartiene al West, ma a un universo esistenzialista dove la volontà individuale si scontra con l'assurdità del mondo. La fotografia in Trucolor, un processo cromatico meno prestigioso del Technicolor ma capace di produrre tinte sature e quasi violente, trasforma il paesaggio in uno stato d'animo. Il rosso non è il colore del tramonto, ma della passione e del sangue; il giallo della camicia di Vienna non è solare, ma un grido di sfida; il bianco del suo abito finale non è simbolo di purezza, ma di una resa dei conti quasi spettrale, un'epifania mortale. È una pittura fauvista applicata alla celluloide, un'estetica che influenzerà profondamente cineasti europei come Jean-Luc Godard, che vedrà in Ray un "poeta" del cinema.
François Truffaut, scrivendo sui Cahiers du Cinéma, definì Johnny Guitar "la Bella e la Bestia del western", un'intuizione folgorante. Perché in questo film, le categorie sono invertite, la bellezza è armata e la bestia non è un mostro, ma la folla stessa. Il climax, con l'incendio del saloon – la distruzione del mondo interiore di Vienna – e il duello finale tra le due donne su una passerella di legno che pare sospesa nel vuoto, non è l'apice di un'avventura, ma l'atto finale di un'opera lirica. La musica di Victor Young, con la sua celebre e malinconica ballata, non commenta l'azione, ma ne esprime l'anima dolente.
Rivedere Johnny Guitar oggi significa assistere a un atto di radicale decostruzione. È un film che usa i significanti del western (pistole, cavalli, saloon) per raccontare una storia che con il western non ha nulla a che fare. È più vicino ai melodrammi incendiari di Douglas Sirk, ma con una nevrosi più spigolosa e una disperazione più nuda. Prefigura la violenza stilizzata e il nichilismo morale dello spaghetti western di Sergio Leone, ma lo fa con una sensibilità da tragedia classica. È un'anomalia, un capolavoro febbricitante che dimostra come i generi non siano gabbie, ma trampolini di lancio per esplorare gli abissi più oscuri e contraddittori della natura umana. Johnny suona la sua chitarra, ma la musica che sentiamo è quella, stridente e magnifica, di un intero mondo – e di un intero genere – che va in pezzi.
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