La città perduta
1995
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Registi
Evocare il fantasma di All'inseguimento della pietra verde è un esercizio tanto inevitabile quanto, in ultima analisi, riduttivo. The Lost City non è un semplice remake o un omaggio deferente; è piuttosto una seduta spiritica cinematografica, un'evocazione post-moderna che dialoga con il suo antenato del 1984 non per imitarlo, ma per interrogarlo, smontarlo e infine ricomporlo secondo le sensibilità, le ironie e le nevrosi del nostro tempo. Se il film di Zemeckis era un'avventura che si specchiava con candore nel genere letterario d'evasione, quello dei fratelli Nee è un film sul genere stesso, una meta-avventura che usa i tropi della narrativa rosa e dell'esplorazione esotica come mattoncini di un Lego narrativo, consapevole in ogni istante della propria artificialità e, proprio per questo, sorprendentemente sincero.
Al centro di questo vortice meta-testuale c'è Loretta Sage (una Sandra Bullock che maneggia la commedia fisica con la perizia di una veterana del cinema muto), una scrittrice di romanzi d'avventura sentimentale che, dopo la morte del marito archeologo, si è ritirata in un guscio di cinismo e misantropia. I suoi libri, pieni di eroine procaci e archeologi aitanti, sono per lei una prigione dorata, un'eco sbiadita della passione autentica che ha perduto. È una sorta di Flaubert pop, disgustata dalla sua stessa Madame Bovary in versione esotica, costretta a un tour promozionale accanto alla personificazione della sua vacuità creativa: Alan Caprison (Channing Tatum), il modello dalle chiome fluenti che presta il volto – e i pettorali – al suo eroe di carta, Dash McMahon. Qui, il film compie la sua prima, brillante inversione. Alan non è solo un bellimbusto; è un "himbo" nell'accezione più nobile e contemporanea del termine: un uomo la cui bontà d'animo, la cui sincera devozione e la cui intelligenza emotiva superano di gran lunga il suo acume intellettuale. È il cuore pulsante del racconto, la decostruzione vivente dell'eroe maschile alfa che i romanzi di Loretta celebrano. Tatum lo interpreta con una grazia comica e una vulnerabilità disarmanti, trasformando quello che poteva essere uno stereotipo in un personaggio tridimensionale.
La premessa, quasi un pretesto da feuilleton ottocentesco, vede Loretta rapita da un miliardario eccentrico e frustrato, Abigail Fairfax (un Daniel Radcliffe deliziosamente sopra le righe), convinto che la scrittrice possa decifrare un'antica iscrizione e condurlo alla "Corona di Fuoco", un tesoro perduto in un'isola remota dell'Atlantico. Fairfax non è un villain alla Belloq di Indiana Jones, mosso da una perversa ambizione accademica, né un dittatore da terzo mondo. È, in modo molto più attuale e inquietante, un "failson", un figlio di papà afflitto da un complesso di inferiorità cosmico, che cerca nella reliquia non il potere, ma la convalida. È un antagonista partorito dall'era dei social media, dove la fama e il riconoscimento contano più della sostanza.
Da questo innesco, The Lost City si lancia in un'avventura che è un commentario continuo sull'avventura stessa. La giungla non è il regno selvaggio e misterioso di un Conrad o di un Werner Herzog, ma un set cinematografico iperreale, un parco a tema di pericoli addomesticati. La celebre sequenza in cui Loretta, costretta a fuggire indossando una tuta da sera viola di paillettes, si lamenta della sua impraticabilità, è una dichiarazione d'intenti. Il film ci dice: "Sappiamo che è assurdo, e proprio per questo è meraviglioso". È un patto di sospensione dell'incredulità che si fonda sulla complicità con lo spettatore, un'operazione simile a quella che faceva Scream con l'horror, ma applicata alla commedia romantica d'azione.
Il colpo di genio, in questo senso, è il cameo prolungato di Brad Pitt nei panni di Jack Trainer, un ex Navy SEAL assoldato da Alan per salvare Loretta. Trainer è la quintessenza dell'eroe d'azione hollywoodiano: competente, imperturbabile, quasi sovrumano. È l'avatar di tutti i Liam Neeson, i Jason Statham e i Tom Cruise. La sua apparizione è una scarica di adrenalina purissima, una sequenza d'azione impeccabile che sembra presa da un altro film, più serio e più costoso. La sua uscita di scena, tanto improvvisa quanto brutalmente comica, è il momento in cui The Lost City strappa il velo della finzione e rivela il suo vero cuore tematico: nel mondo reale, gli eroi non sono quelli che sanno neutralizzare dieci guardie a mani nude, ma quelli che, come Alan, sono disposti a sembrare ridicoli e a fallire pur di aiutare la persona che amano. È una critica sottile ma feroce all'iper-mascolinità tossica che ha dominato il genere per decenni.
La dinamica tra Bullock e Tatum è il perno su cui ruota l'intera struttura. È una sinfonia di contrasti comici che gradualmente si armonizza in un'intesa genuina. Lei è la mente, lui il corpo; lei la parola, lui l'azione istintiva. La loro chimica ricorda quella delle grandi coppie della screwball comedy degli anni '30 e '40, come Cary Grant e Katharine Hepburn in Susanna!, dove l'intellettuale snob viene riportato con i piedi per terra (e nel fango) dalla vitalità caotica dell'altro. La scena in cui Alan deve rimuovere le sanguisughe dalla schiena di Loretta è un capolavoro di imbarazzo e intimità, un momento in cui la commedia slapstick si trasfigura in un inaspettato momento di connessione umana.
Il film, prodotto in un'era dominata dai franchise e dai multiversi, si erge come un baluardo quasi anacronistico del cinema di "star power", un oggetto raro che si regge interamente sulle spalle dei suoi attori e su una sceneggiatura brillante (scritta, tra gli altri, da Oren Uziel e Dana Fox). È un prodotto che sembra provenire da un'altra Hollywood, quella degli anni '90, quando un'idea originale e due volti noti bastavano a garantire un successo. In questo, The Lost City non è solo intrattenimento, ma anche un atto di resistenza culturale, un promemoria del fatto che il cinema può ancora essere un'esperienza guidata dai personaggi e dalla chimica, piuttosto che dagli effetti speciali e dalla continuity di un universo espanso.
Sotto la superficie scintillante della commedia e dell'azione, il film tesse una riflessione malinconica sul lutto e sul processo creativo. La "città perduta" del titolo non è solo un luogo fisico da scoprire, ma la metafora dello stato interiore di Loretta. È il mondo di passione, amore e avventura che ha perso con la morte del marito e che ha cercato di ricostruire, artificialmente, nei suoi romanzi. Il suo viaggio nella giungla non è solo una fuga dai rapitori, ma un percorso di riscoperta di sé, un modo per riconnettersi con la versione di sé stessa capace di amare l'avventura reale, non solo quella stampata su carta. Il tesoro, come si conviene a una favola moderna, si rivela non essere un oggetto di valore materiale, ma un simbolo di amore eterno, una scoperta che permette a Loretta di elaborare finalmente il suo dolore e di aprirsi a un nuovo capitolo della sua vita.
The Lost City è un simulacro che diventa realtà, un romanzo d'appendice che prende vita e scopre di avere un'anima. È un'opera che celebra l'artificio mentre cerca disperatamente l'autenticità, che ride dei cliché mentre li abbraccia con affetto. Non cambierà la storia del cinema, né aspira a farlo. Ma nella sua perfetta esecuzione di una formula amata, nella sua intelligenza meta-narrativa e nel suo cuore sorprendentemente caldo, si ritaglia un posto d'onore come una delle più riuscite e consapevoli commedie d'avventura degli ultimi decenni. È un delizioso paradosso: un film che sembra fatto a macchina, ma che pulsa di una vita innegabilmente, meravigliosamente umana.
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