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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La classe operaia va in paradiso

1971

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Regista

Un frastuono metallico, implacabile, che non è colonna sonora ma materia stessa del film. Un ritmo sincopato di presse, ingranaggi e sirene che detta il tempo della vita, del pensiero, persino del sesso. La macchina da presa di Elio Petri ci scaraventa senza preamboli nel ventre della bestia, la fabbrica, e ce ne fa respirare i fumi oleosi, ce ne fa sentire il tremore nelle ossa. Qui, in questo girone dantesco riprogettato dall’ingegneria meccanica, regna Ludovico “Lulù” Massa, operaio cottimista che ha interiorizzato a tal punto la logica della produzione da diventare egli stesso un’appendice del macchinario. Gian Maria Volonté non lo interpreta: lo incarna con una performance tellurica, ferina, un fascio di nervi e sudore che trasforma la recitazione in un evento fisiologico. Il suo Lulù è uno stakhanovista all’italiana, un idolo negativo per i colleghi che non tengono il suo passo, un eroe per i padroni che lo usano come metro di produttività. È l’uomo-macchina sognato dai Futuristi, ma privato di ogni epica e ridotto a pura, alienata efficienza.

Il cinema di Petri, e in particolare la sua “trilogia della nevrosi” (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, questo film e La proprietà non è più un furto), non è mai stato un cinema di tesi consolatorie. È un cinema che seziona il corpo sociale con la precisione di un chirurgo e l’immaginazione grottesca di un Hieronymus Bosch. La classe operaia va in paradiso non è un film sull’operaio come figura eroica del marxismo ortodosso, ma sull’individuo atomizzato, schiacciato da forze che non comprende e che lo sovrastano. Lulù non pensa, agisce. Il suo orizzonte è il consumismo più elementare: il televisore a colori, l’utilitaria, il sesso meccanico e insoddisfacente con una compagna che è, a sua volta, un’altra vittima del sistema. La sua unica, vera relazione erotica è con la macchina che lo domina per otto ore al giorno, un rapporto di amore-odio, di simbiosi e di sottomissione.

Il punto di rottura, l’incidente scatenante che innesca la crisi, è quasi un contrappasso biblico: la perdita di un dito. Un’inezia nel grande schema della produzione, ma una mutilazione che per Lulù è una castrazione simbolica. Privato della sua infallibilità produttiva, l’uomo-macchina si guasta. Il meccanismo si inceppa e, per la prima volta, Lulù è costretto a fermarsi, a guardarsi intorno. Ciò che vede è un inferno stratificato. Da un lato, il sindacato istituzionale, pragmatico e burocratizzato, che tratta la sua rabbia come un problema da gestire. Dall'altro, gli studenti maoisti, che scavalcano i cancelli per portare una rivoluzione fatta di slogan astratti e di una teoria che Lulù, immerso nella concretezza brutale del lavoro, non può decifrare. “Lo studente non conosce la fabbrica”, borbotta, ed è una delle verità più amare del film. Petri mette in scena il tragico scollamento tra il corpo sofferente del lavoro e le avanguardie intellettuali che vorrebbero rappresentarlo, trasformando Lulù in una pallina da flipper che rimbalza tra opposti dogmatismi, incapace di trovare una sintesi o una vera coscienza di classe.

Questo film è un’opera espressionista travestita da cinema politico. La fabbrica non è rappresentata con realismo documentaristico; è un paesaggio mentale, la proiezione esteriore della psiche frammentata dei suoi operai. Le inquadrature claustrofobiche di Luigi Kuveiller, i primi piani deformati, il montaggio febbrile di Ruggero Mastroianni e la partitura di Ennio Morricone – che fonde musica concreta, suoni industriali e cori stranianti – concorrono a creare un’esperienza sensoriale totalizzante e oppressiva. Lo spettatore non osserva l’alienazione, la subisce. È un’opera che ha più in comune con il labirinto burocratico de Il processo di Kafka o con la discesa nella follia di un personaggio di Dostoevskij che con il neorealismo pedinante di De Sica. Lulù è un uomo del sottosuolo che emerge alla luce solo per scoprire che la luce è ancora più accecante e confusa delle tenebre della sua routine.

Girato nel 1971, il film è un sismografo perfetto delle tensioni che scuotevano l’Italia. L’eco dell’Autunno Caldo del ’69 era ancora fortissimo, e l’aria era satura di ideologie, di speranze rivoluzionarie e di violenza latente che sarebbero presto esplose negli Anni di Piombo. Petri ebbe il coraggio, e l’acume, di non schierarsi, di mostrare il caos senza offrire facili soluzioni. Per questo il film fu attaccato da tutte le parti: dalla Confindustria, che lo vide come un incitamento alla rivolta; dai sindacati e dal PCI, che lo accusarono di rappresentare la classe operaia come una massa informe e priva di coscienza politica; e dagli stessi gruppi extra-parlamentari, che non si riconobbero nella caricatura dei loro giovani militanti. Il fatto che un’opera così complessa e problematica abbia vinto la Palma d’Oro a Cannes (ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi, altro capolavoro di cinema civile) testimonia la sua dirompente forza e la sua capacità di intercettare lo spirito di un’epoca.

Ma il vero colpo di genio, la chiave di volta che eleva il film a capolavoro universale, è il suo finale enigmatico e struggente. Dopo essere stato licenziato, riassunto, dopo aver attraversato la protesta, il manicomio e il ritorno alla catena di montaggio, Lulù si ritrova esattamente al punto di partenza. Ma qualcosa è cambiato. Racconta ai suoi compagni un sogno, o forse un delirio: lui e altri operai abbattono un muro, convinti di trovare il paradiso. Ma dietro il muro c’è solo nebbia, e un altro muro. E poi un altro ancora. Il paradiso non è una destinazione, ma una narrazione collettiva, una favola che ci si racconta per sopravvivere all’inferno. L’ultima inquadratura, con gli operai che mimano il loro lavoro in un balletto catatonico mentre Lulù sorride, immerso in questa allucinazione condivisa, è di una potenza poetica e terribile. Non c'è vittoria, non c'è liberazione. Il paradiso, per la classe operaia, è forse la capacità di sognare insieme la propria evasione, pur rimanendo incatenati alla stessa macchina. È la più lucida e spietata diagnosi di una condizione che, mutatis mutandis, trascende il suo contesto storico per parlarci ancora oggi della nostra inestinguibile capacità di costruire mitologie per sopportare il reale.

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