La Maschera del Demonio
1960
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Regista
Un film condotto con magistrale senso della tensione questo di Bava, un regista italiano che davvero raccolse, a livello di critica e pubblico, molto meno di quel che si sarebbe meritato. La sua carriera, spesso iniziata dietro la macchina da presa come direttore della fotografia e mago degli effetti speciali, gli permise di sviluppare una visione unica e quasi pittorica del cinema, una capacità di creare mondi inquietanti con risorse limitate ma un’inventiva illimitata. Bava, in effetti, fu un vero e proprio architetto dell’immaginario gotico, un artigiano del brivido che elevò il genere a forma d’arte, anticipando mode e soluzioni stilistiche che sarebbero state copiate e celebrate da generazioni di cineasti successivi. Nonostante il suo genio visivo e la sua profonda influenza, il riconoscimento mainstream gli giunse spesso tardi, o mai del tutto, confinato per lungo tempo nel recinto della critica specializzata e del culto cinefilo.
Un bianco e nero spettrale, gotico, impastato di atmosfere impalpabili fa da cornice ad una vicenda che trae spunto da una short story del grande Gogol, “Il Viy”, ma che Bava trasforma e distilla in una quintessenza del terrore barocco. Non è un mero adattamento, bensì una rilettura profondamente personale, dove la leggenda slava si piega a un’estetica visiva che richiama i maestri dell’Espressionismo tedesco, da Murnau a Lang, per la sua drammaticità chiaroscurale, ma anche la pittura caravaggesca per l'uso della luce e dell'ombra nel delineare figure e volumi, enfatizzando il grottesco e il sublime. Ogni inquadratura è un quadro, un esercizio di composizione che sfrutta la monocromia per creare profondità, mistero e un senso tangibile di oppressiva bellezza, dove la nebbia si fa personaggio e le tenebre celano orrori ineffabili.
La storia è quella del risveglio di una terribile strega, Asa Vajda (interpretata da un’iconica Barbara Steele, musa del gotico e archetipo della scream queen), per inconsapevole opera di un professore universitario in viaggio per lavoro. Asa, tornata dal sepolcro, calerà sul mondo con furia da Erinni, non solo per vendicare la sua ingiusta condanna di due secoli prima, ma per ripristinare un regno di orrore ancestrale. Il suo piano è spietatamente concepito per sovvertire l'ordine naturale, seducendo e corrompendo la discendenza di coloro che l'hanno condannata, in particolare la giovane Katia, anch’essa impersonata da Barbara Steele in una performance duale che esplora i temi del doppelgänger, dell'identità frammentata e della perversa attrazione tra bellezza innocente e mostruosità secolare. Il film si addentra così nelle pieghe più oscure dell'animo umano, esplorando la ciclicità del male, il fascino morboso dell'ignoto e la sottile linea che separa il desiderio dalla dannazione, il passato dal presente che non riesce a liberarsi dal suo giogo maledetto.
Probabilmente una delle scene horror più belle mai girate è quella d’apertura, tre minuti di meraviglioso incanto gotico, un vero e proprio prologo d’autore che getta le basi per l’intera narrazione. Con una padronanza stilistica sbalorditiva, Bava ci immerge nel tormento di Asa, legata al palo del suo supplizio, mentre ascolta i motivi della sua condanna in un'atmosfera carica di presagi. La sua reazione non è di sottomissione, ma di una furia primordiale che si traduce in una maledizione lanciata con violenza sciamanica sul fratello che presiede il tribunale. E poi, il momento che scolpisce il film nella memoria: il boia le inchioda sul viso la Maschera del Demonio. Bava non lesina sul sadismo visivo, indugiando in un primo piano lento e straziante delle punte acuminate che si avvicinano, e poi affondano, nella carne dell'oculo, penetrando gli occhi con una brutalità inaudita per l'epoca. Il suono metallico della maschera che si conficca è un colpo allo stomaco, un orrore fisico e psicologico che non solo definisce la crudeltà dell'esecuzione, ma sigilla il destino di vendetta della strega, trasformando la maschera stessa in un simbolo tangibile del male e del trauma, un volto di morte che tornerà a tormentare i vivi. Questa sequenza, per la sua audacia e la sua perfezione formale, è un vertice ineguagliato del cinema del terrore, una lezione magistrale su come costruire la paura attraverso l'immagine e il montaggio.
Un caposaldo dell’horror non solo italiano, ma di sempre, questo film ha ridefinito il genere, dimostrando che il terrore più profondo può emergere da un'estetica raffinata e non dalla mera esibizione dello splatter. La sua influenza è stata capillare, riverberandosi attraverso le generazioni di cineasti, dai registi della Hammer Film Productions che ne ammirarono la capacità di creare atmosfere e personaggi iconici, ai maestri del giallo italiano come Dario Argento e Lucio Fulci, che da Bava attinsero la lezione sul potere suggestivo del colore (anche se qui assente), della luce e della violenza stilizzata. Non a caso citato da Tarantino come archetipo imprescindibile, e spesso menzionato da registi contemporanei che ne riconoscono il genio visionario, "La Maschera del Demonio" non è solo un monumento al cinema gotico, ma una dimostrazione di come la bellezza più sinistra possa essere anche la più affascinante. È un'esperienza sensoriale che trascende la semplice narrazione, immergendo lo spettatore in un incubo lucido dal quale è difficile sfuggire. Un film che va visto con tutte le luci accese e una buona dose di ottimismo nel futuro, perché la sua capacità di insinuarsi nelle paure ancestrali è, ancora oggi, straordinariamente potente.
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