La paura mangia l'anima
1974
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Regista
Rainer Werner Fassbinder, nel suo cinema febbrile e disperato, ha sempre maneggiato il melodramma non come un genere di consolazione, ma come un bisturi. Con la precisione di un chirurgo autoptico, dissezionava i cadaveri ancora tiepidi delle convenzioni sociali, esponendone il marciume interno con una lucidità quasi insopportabile. La paura mangia l'anima (Angst essen Seele auf), girato in uno stato di grazia creativa in meno di due settimane, è forse l'incisione più profonda e dolorosamente perfetta di tutta la sua carriera. Il film si presenta come l'improbabile storia d'amore tra Emmi, un'anziana vedova tedesca che lavora come donna delle pulizie, e Ali, un Gastarbeiter marocchino di vent'anni più giovane. Eppure, ridurre quest'opera a una semplice parabola sull'intolleranza razziale e generazionale sarebbe come descrivere Moby Dick come un manuale di caccia alla balena. Fassbinder trascende il pamphlet politico per orchestrare un'elegia straziante sulla solitudine e sulla crudeltà endemica che si annida non tanto nell'odio conclamato, quanto nel conformismo silenzioso e soffocante della "brava gente".
L'architrave su cui poggia l'intera struttura è un atto di devozione cinefila tanto sfrontato quanto geniale. Fassbinder prende di peso la trama di Secondo amore (All That Heaven Allows, 1955) del suo idolo Douglas Sirk, in cui una vedova dell'alta borghesia (Jane Wyman) si innamora del suo giovane e aitante giardiniere (Rock Hudson), scandalizzando la propria comunità. Ma dove Sirk dipingeva le sue prigioni dorate con i colori sgargianti e lussuosi del Technicolor, Fassbinder traspone quella stessa gabbia emotiva nella squallida e piovosa Monaco di Baviera degli anni '70. Sostituisce i cocktail party e i country club con bar fumosi frequentati da lavoratori stranieri e appartamenti piccolo-borghesi arredati con un gusto tetro e opprimente. La discriminazione di classe del New England diventa la xenofobia viscerale della Germania del "miracolo economico", un miracolo costruito anche sul sudore di quegli stessi "lavoratori ospiti" che ora vengono guardati con disprezzo e sospetto. È un'operazione di decostruzione e riassemblaggio meta-testuale di una purezza abbagliante: Fassbinder non si limita a omaggiare Sirk, ma ne estrae il DNA melodrammatico per innestarlo in un corpo nuovo, malato, e spaventosamente reale.
La regia di Fassbinder è di una teatralità programmatica, quasi brechtiana. I personaggi sono spesso intrappolati in cornici naturali – stipiti di porte, finestre, corridoi – che ne sottolineano la condizione di prigionieri esistenziali. La macchina da presa, spesso statica, li osserva da una distanza clinica, come un entomologo che studia il comportamento di insetti in un terrario. Le conversazioni sono costellate di silenzi pesanti, di frasi fatte e di ripetizioni che svuotano il linguaggio della sua funzione comunicativa per rivelarne la natura di rituale sociale vuoto. La scena iniziale nel bar, dove Emmi entra per ripararsi dalla pioggia, è un capolavoro di messa in scena. I volti ostili degli altri avventori, la musica arabeggiante che suona dal juke-box, la scommessa crudele che spinge Ali a invitare a ballare "la nonna": ogni elemento è orchestrato per creare un'atmosfera di alienazione tangibile. Quando Emmi e Ali danzano, soli al centro di uno spazio che li respinge, non assistiamo all'inizio di una storia d'amore, ma alla nascita di un'alleanza disperata tra due solitudini assolute.
Brigitte Mira, attrice feticcio di Fassbinder, regala un'interpretazione monumentale nel ruolo di Emmi. Il suo volto è una mappa di decenni di fatiche e delusioni, ma i suoi occhi conservano una scintilla di speranza ingenua e quasi infantile. Emmi non è un'eroina o una santa. È una donna semplice, la cui gentilezza iniziale è dettata più dalla solitudine che da un'innata superiorità morale. E proprio in questo risiede la grandezza del film. Fassbinder non ci mostra la lotta del Bene contro il Male, ma il modo in cui il male, inteso come pregiudizio, sia contagioso e possa infettare anche le anime più pure. Nella seconda parte del film, quando la comunità (i figli, i vicini, persino il droghiere del quartiere) decide per convenienza di accettare la relazione, è Emmi stessa a diventare, per un momento, un'aguzzina. Quando mostra con orgoglio i muscoli di Ali alle sue amiche pettegole, trattandolo come un oggetto esotico, o quando gli chiede di prepararle il couscous per poi criticarlo, vediamo come il bisogno di approvazione sociale possa corrompere anche il sentimento più sincero. Emmi, per essere riaccettata nel branco, ne adotta inconsciamente le dinamiche predatorie.
Dall'altra parte, El Hedi ben Salem (all'epoca compagno di Fassbinder, in una tragica sovrapposizione tra vita e arte che si concluderà con il suo suicidio anni dopo) interpreta Ali con una presenza fisica imponente e una vulnerabilità quasi muta. Il suo tedesco stentato ("Deutsch gut, nix gut") lo rende un bersaglio facile, un corpo su cui proiettare ogni sorta di stereotipo. Ali non è un personaggio psicologicamente complesso; è piuttosto uno specchio, una superficie che riflette la bruttezza di chi lo guarda. La sua relazione con Emmi è l'unica ancora di salvezza in un mondo che lo considera invisibile o, peggio, un'invasione. La loro casa diventa un rifugio assediato, un'isola precaria in un oceano di ostilità. E quando quell'ostilità si placa, non è per un'improvvisa illuminazione collettiva, ma per mero tornaconto. I figli di Emmi hanno bisogno di una babysitter, il droghiere non vuole perdere una cliente. L'accettazione non è un atto di umanità, ma una transazione economica.
Il titolo, che traduce letteralmente il detto tedesco "Angst essen Seele auf", è la chiave di volta filosofica del film. La paura non si limita a tormentare l'anima, la divora, la consuma dall'interno fino a non lasciare nulla. È la paura dei vicini di casa, che temono il diverso e la contaminazione. È la paura dei figli di Emmi, terrorizzati dalla vergogna sociale. Ma, in modo più sottile e devastante, è la paura che finisce per insinuarsi tra i due amanti. La pressione esterna diventa pressione interna, trasformando l'amore in un gioco di potere e recriminazione. La vera tragedia non è l'ostracismo della società, ma il modo in cui quell'ostracismo riesce a penetrare le mura di casa e a erodere le fondamenta stesse del loro legame. Il malore di Ali alla fine del film, un'ulcera allo stomaco perforata, è la somatizzazione perfetta di questo processo. Non è il razzismo ad ucciderlo, ma lo stress costante, il veleno invisibile dell'emarginazione che gli ha letteralmente corroso le viscere. La paura, ci dice Fassbinder, non è un mostro esterno che ci attacca. È un acido gastrico che produciamo noi stessi di fronte al giudizio altrui, e che finisce per digerire tutto, compresa la possibilità di essere felici. In questo, La paura mangia l'anima smette di essere un film sulla Germania degli anni '70 e diventa un apologo universale e senza tempo sulla fragilità umana, un capolavoro la cui eco risuona, lancinante e necessaria, ogni volta che un essere umano viene giudicato non per chi è, ma per la categoria a cui appartiene.
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