La promessa dell'assassino
2007
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Regista
La pelle non mente. Su di essa si deposita il tempo, si incidono le cicatrici delle battaglie, si scrive la biografia non autorizzata di un’esistenza. Per David Cronenberg, regista-entomologo dell’umano, la carne è sempre stata la tela definitiva, il luogo ontologico in cui identità, trauma e trasformazione collidono. Ma se nei suoi capolavori della “nuova carne” – da Videodrome a eXistenZ – il corpo era un campo di battaglia malleabile, soggetto a mutazioni organiche e tecnologiche, con La promessa dell’assassino il regista canadese compie un’operazione tanto più sottile quanto più agghiacciante: il corpo non si trasforma più, ma si rivela. Diventa un testo, un codice da decifrare, una pergamena su cui la Vory v Zakone, la mafia russa, imprime la sua legge inchiostrata.
Il film si apre non a caso con un atto di violenza cruda e un atto di nascita. Un uomo viene sgozzato in una barberia, il sangue che macchia la schiuma da barba in un presagio di purezza violata; poco dopo, una ragazzina quattordicenne muore dando alla luce un bambino in un ospedale londinese. A collegare questi due mondi è un diario, lasciato dalla giovane prostituta e trovato dalla levatrice Anna Khitrova (una Naomi Watts che funge da bussola morale in un oceano di ambiguità). La sua traduzione la trascina nel cuore pulsante e oscuro della diaspora criminale russa, un mondo governato da Semyon (un Armin Mueller-Stahl patriarcale e mellifluo, che serve borscht con la stessa disinvoltura con cui ordina un omicidio) e dal suo figlio instabile e violento, Kirill (un Vincent Cassel magistrale nel ritrarre un’insicurezza che tracima in brutalità). Ma la vera chiave d'accesso a questo universo è l'autista/factotum/guardia del corpo di Kirill, il gelido e impenetrabile Nikolai Luzhin.
Interpretato da un Viggo Mortensen in stato di grazia, Nikolai è una delle più grandi creazioni del cinema del XXI secolo. È una figura che sembra uscita da un romanzo di Dostoevskij e trapiantata nella topografia umida e grigia di una Londra che non è quella delle cartoline, ma un crocevia conradiano di anime perdute. Mortensen, con una preparazione che è già leggenda (ha passato settimane in Russia, imparato la lingua e studiato a fondo i codici della Vory), non interpreta un personaggio: lo incarna, letteralmente. Il suo corpo è il vero protagonista del film. I tatuaggi che lo ricoprono non sono semplici decorazioni, ma una semiotica complessa, un curriculum vitae criminale che ne dichiara rango, crimini, condanne e fedeltà. Le stelle sulle ginocchia significano che non si inginocchierà mai di fronte a nessuna autorità; le cupole delle chiese sul dorso indicano gli anni di prigione. Cronenberg filma questa mappa corporale con la precisione di un cartografo e la curiosità di un patologo. Quando Nikolai viene “interrogato” dai capi della Vory, che ne esaminano i tatuaggi per verificarne l'autenticità, non assistiamo a un colloquio, ma a una vera e propria esegesi del corpo. La sua identità è scritta sulla sua pelle, ed è questa la sua unica, terribile verità.
In questo senso, La promessa dell’assassino forma un dittico quasi perfetto con il precedente A History of Violence. Entrambi i film esplorano la natura della violenza e la fragilità dell'identità maschile, ma se lì il protagonista cercava di seppellire un passato violento sotto una facciata di normalità borghese, qui Nikolai indossa la sua violenza come una seconda pelle, un’uniforme che non può essere svestita. È un professionista, un ingranaggio silenzioso in un meccanismo letale, la cui efficienza ricorda quella degli assassini solitari del cinema di Jean-Pierre Melville. Come il Jef Costello de Le Samouraï, Nikolai vive secondo un codice, ma il suo non è un codice d'onore esistenzialista; è un codice di sopravvivenza tribale, brutale e pragmatico.
E la brutalità, in Cronenberg, non è mai estetica. È fisica, goffa, disperata. L'apice di questa filosofia raggiunge la sua forma più pura e indimenticabile nella sequenza del bagno turco. È una delle scene di combattimento più celebri e analizzate della storia del cinema, e a ragione. Nikolai, completamente nudo, vulnerabile, esposto, viene attaccato da due sicari ceceni armati di coltelli linoleum. Non c'è musica a sottolineare l'azione, non c'è montaggio frenetico alla Bourne, non c'è coreografia elegante. C'è solo il suono dei corpi che scivolano sulle piastrelle bagnate, il tonfo della carne colpita, il grugnito di dolore, lo sforzo disumano per sopravvivere. La nudità di Mortensen non è erotica, ma primordiale. È l'uomo ridotto alla sua essenza: un pezzo di carne che lotta per non essere macellato. La scena è un trattato sulla vulnerabilità, un dipinto di Francis Bacon che prende vita, dove il corpo contorto e sofferente diventa l'unica verità possibile. È il manifesto programmatico del film e forse dell'intera poetica del tardo Cronenberg: la violenza non è uno spettacolo, ma un evento biologico, sporco e doloroso.
Sotto la superficie del thriller criminale, La promessa dell'assassino è una profonda meditazione sull'appartenenza e sulla famiglia. C'è la famiglia biologica, rappresentata da Anna e dalla sua famiglia russa "buona", e c'è la famiglia criminale della Vory, un surrogato patriarcale basato su rituali di sangue e fedeltà inchiostrata. Nikolai si muove tra questi due mondi, un infiltrato la cui vera natura rimane ambigua fino alla fine. Il bambino, vero e proprio MacGuffin vivente, diventa il simbolo di un'innocenza contesa, un'anima nuova su cui le vecchie colpe del mondo minacciano di proiettare la loro ombra. La promessa del titolo non è solo quella dell'assassino, ma quella fatta a una madre morente, una promessa di protezione che diventa l'unico faro di moralità in un mondo che ne è privo.
Scritto da Steven Knight (che avrebbe poi creato la serie Peaky Blinders, esplorando temi simili di famiglia e criminalità), il film possiede una densità narrativa e una precisione antropologica che lo elevano ben al di sopra del genere. Non è semplicemente un "film sulla mafia russa"; è uno studio su come antichi codici tribali sopravvivono e si adattano nel ventre di una metropoli globale e multiculturale come Londra. Cronenberg non giudica; osserva con la sua tipica lucidità clinica, dissezionando le dinamiche di potere, le fragilità psicologiche e le inevitabili esplosioni di violenza con la precisione di un chirurgo.
Il finale, sospeso e malinconico, rifiuta qualsiasi catarsi consolatoria. Nikolai siede da solo in un ristorante buio, nuovo re di un regno di ombre, il suo volto una maschera impenetrabile di controllo e solitudine. Ha vinto, forse, ma il suo premio è un esilio perpetuo all'interno della stessa prigione che ha imparato a dominare. La promessa è stata mantenuta, ma a un costo che rimane inciso non solo sulla sua pelle, ma sulla sua anima. La promessa dell'assassino è cinema adulto, complesso e spietato, un'opera che conferma Cronenberg non solo come un maestro dell'horror corporeo, ma come uno dei più acuti e implacabili analisti della condizione umana. Un capolavoro la cui eco risuona a lungo, come una cicatrice che ci ricorda la fragilità del corpo e l'indelebilità della violenza.
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