Le Armonie di Werckmeister
2000
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Registi
Guardare un film di Béla Tarr significa accettare di rallentare il proprio metabolismo, di abbandonare le certezze della narrazione convenzionale e di immergersi in un'esperienza temporale e spirituale diversa. Le Armonie di Werckmeister, del 2000, è forse il vertice più accessibile, sebbene ancora esigente, della sua arte. È un requiem in bianco e nero per la civiltà, un'ipnotica meditazione sulla fragilità dell'ordine cosmico e sulla facilità con cui la disperazione umana può essere accesa dalla fiamma della demagogia. È un'opera che, nella sua desolata bellezza, risuona oggi, nell'era della disinformazione e della rabbia virale, con la forza di una profezia.
La primissima immagine è un fuoco scoppiettante in una taverna fumosa. Viene attizzato e stimolato quanto basta per mantenere la luce tremolante mentre questa dimora si spegne per la notte. Prima che tutti se ne vadano, il giovane e ingenuo János Valuska, il nostro Virgilio in questo inferno ungherese, viene incoraggiato a mettere in scena uno spettacolo. Messo alle strette, Valuska inventa una danza che coinvolge il sistema solare. Ai vari avventori, uomini abbrutiti dall'alcol e dalla rassegnazione, vengono assegnati i ruoli del sole, della terra e della luna. Per un breve, magico istante, la camera di Tarr li segue in una lenta e goffa orbita, e il caos della taverna si trasforma in un'armonia cosmica, un ordine divino imposto dalla fantasia di un sognatore. Sia il fuoco che questa performance sono ripresi in un'unica, fluida e ipnotica lunga ripresa, come è consuetudine nelle opere di Tarr.
Questa singola immagine iniziale è il film in miniatura, la chiave per decifrarne il complesso linguaggio allegorico. Stabilisce che il controllo e l'ordine sono temi cruciali. La performance di Valuska, che alla fine si affievolisce nel nulla, riflette quanto possa essere futile il tentativo dell'uomo di imporre un senso su un universo indifferente e caotico. Eppure l'umanità continua a cercare di controllare tutto. È uno dei nostri peggiori impulsi. Queste inclinazioni oscure definiscono Le Armonie di Werckmeister. L'arrivo in città di un misterioso circo, con le sue due uniche, sinistre attrazioni: una gigantesca balena imbalsamata e un enigmatico agitatore conosciuto solo come "Il Principe" che agisce da catalizzatore. La balena, carcassa monumentale di una creatura un tempo sublime, è il simbolo di un ordine naturale e divino ormai morto, ridotto a un oggetto da baraccone. Il Principe, che non vediamo mai chiaramente ma di cui sentiamo la voce e percepiamo l'influenza, è il demagogo che riempie il vuoto lasciato dalla morte del sacro. La sua retorica nichilista aizza la folla, una massa di uomini senza nome la cui disperazione latente viene trasformata in una furia distruttiva. La lezione è spietata: quando l'armonia cosmica si spezza, la società umana segue a ruota.
Béla Tarr è il depositario e al contempo il punto terminale di una grande tradizione estetica del cinema dell'Est. Se Sergej Eisenstein usava il montaggio per creare una dialettica intellettuale e Andrej Tarkovskij usava il lungo piano sequenza per "scolpire nel tempo" e raggiungere una dimensione spirituale, Tarr porta il piano sequenza alla sua conclusione più radicale ed esistenziale. Le sue riprese infinite, con la camera che fluttua come un fantasma attraverso paesaggi desolati, non servono a osservare l'azione, ma a farci sperimentare la durata, il peso del tempo stesso. È un cinema che richiede una resa. La sua influenza su cineasti moderni che lavorano con la temporalità e l'atmosfera, da Gus Van Sant a Lars von Trier, è incalcolabile. Molti hanno provato a imitarne lo stile, ma pochi ne hanno afferrato l'anima profondamente filosofica.
Spesso lo si paragona alla sua opera precedente, il monumentale Satantango di sette ore. Ma ci sono differenze cruciali. Se Satantango è un'immersione totale nella lenta, quasi comica, agonia di una comunità rurale che si decompone dall'interno, Le Armonie di Werckmeister è più compatto, più allegorico. È un racconto quasi mitologico sull'arrivo di una forza esterna che fa detonare una disperazione già presente. Se Satantango è una malattia cronica, Le Armonie è un infarto improvviso e fatale.
La telecamera in continuo movimento rimane costante per tutto il film e ogni scena è presentata con uno sguardo ininterrotto. La sequenza centrale, quella della rivolta all'ospedale, è una delle più agghiaccianti della storia del cinema. Per minuti interi, seguiamo in un silenzio quasi totale la folla che, con una metodicità terrificante, distrugge tutto ciò che incontra. La violenza è viscerale, ma mai esplicita. Béla Tarr e la co-regista Ágnes Hranitzky scelgono di insinuare più che rivelare direttamente, mantenendo costante il mistero sulla vera natura del Principe e sulle motivazioni della folla. L'orrore non è nel sangue, ma nel silenzio, nel ritmo implacabile di quella marcia distruttiva. Il culmine della scena, quando la folla si ferma di fronte alla vista di un vecchio nudo e fragile, e la furia si spegne in un attimo di vergogna e umanità, è un momento di una potenza sconvolgente, un barlume di luce nell'oscurità più totale.
La collaborazione con lo scrittore László Krasznahorkai, autore del romanzo "Melancolia della Resistenza" da cui è tratto il film, è fondamentale. Tarr non adatta semplicemente i suoi libri; li traduce in un altro linguaggio. La prosa densa, labirintica e apocalittica di Krasznahorkai trova in Tarr il suo perfetto interprete visivo. I temi del romanzo, il destino imminente e il terrore metafisico, si sposano perfettamente con lo stile filosofico del regista. Forse altrettanto importante quanto la fotografia è la colonna sonora di Mihály Víg. La sua melodia morbida, struggente e infinitamente ripetuta non è un semplice accompagnamento; è il respiro stesso del film, il suono della malinconia, la nenia funebre per un mondo che ha perso la sua armonia. L'atmosfera disperata tipica di Tarr è suggerita da una frase chiave pronunciata verso la fine del film: "chi ha paura non sa nulla". Le Armonie di Werckmeister è un film difficile, punitivo, ma necessario. È un'opera che ci costringe a guardare nell'abisso, a confrontarci con la fragilità delle nostre certezze e con la facilità con cui la civiltà può crollare.
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