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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

L'invitto

1956

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Il treno che squarciava l'idillio rurale in Pather Panchali non era solo un presagio, una meraviglia meccanica vista attraverso campi di fiori kash. Era una prolessi. In Aparajito, secondo capitolo della monumentale trilogia di Apu, quel treno diventa il veicolo ineluttabile del destino, il vettore di una separazione che è tanto geografica quanto spirituale. Satyajit Ray, con la precisione di un entomologo e l'anima di un poeta, smette di cantare l'elegia per un'infanzia perduta e inizia a comporre un requiem per la famiglia come entità indissolubile. Se il primo film era un acquerello impressionista sulla scoperta del mondo, L'invitto è un'incisione a bulino, più dura, più scura, che scava nelle complessità psicologiche della crescita e nel dolore che accompagna ogni atto di auto-affermazione.

Spostando l'azione dal villaggio di Nischindipur alla sacra e caotica Varanasi, Ray opera uno scarto estetico e tematico radicale. La macchina da presa di Subrata Mitra, che prima si perdeva nell'organica vastità della natura bengalese, ora si disciplina, si fa quasi architettonica. Le geometrie dei ghat sul Gange, le scale infinite che scendono verso il fiume sacro, diventano una griglia esistenziale in cui la famiglia di Apu, già ferita, cerca di ricomporsi. Il padre Harihar, sognatore inadeguato e sacerdote, trova qui la sua fine, in una sequenza di una potenza visiva straziante. La sua morte non è un evento melodrammatico, ma un lento spegnersi, osservato dalla camera con un pudore che amplifica il dolore. È qui che il film dichiara il suo assioma: la vita, come il grande fiume, continua a scorrere, indifferente ai drammi individuali che si consumano sulle sue rive.

È dopo questa perdita che si cristallizza il nucleo tematico del film: la diade formata da Apu e sua madre Sarbajaya. La loro relazione è una delle più complesse e veritiere mai portate sullo schermo, un campo di battaglia silenzioso dove si scontrano due forze cosmiche: l'attaccamento al passato e la spinta verso il futuro. Sarbajaya, tornata nel suo villaggio natale, rappresenta il mondo ctonio, la tradizione, la sicurezza del focolare, un amore che per proteggere rischia di soffocare. Apu, al contrario, è la personificazione del desiderio di conoscenza, della modernità che bussa alla porta. La sua fame di libri, la sua brama per l'inglese e le scienze, non sono un semplice capriccio adolescenziale; sono un'urgenza epistemologica, il bisogno di decifrare un mondo più vasto di quello circoscritto dalle tradizioni del villaggio.

Qui, Ray orchestra una dialettica visiva magistrale. Quando Apu è a Calcutta per studiare, la città è presentata come un luogo di energia intellettuale, di possibilità, anche se squallido e impersonale. La macchina da presa segue i suoi passi veloci, la sua curiosità. Quando invece torna al villaggio, il ritmo rallenta, lo spazio si fa più claustrofobico. La gioia iniziale di Sarbajaya nel rivedere il figlio si trasforma progressivamente in una muta angoscia. Ray la filma spesso da sola, in attesa, incorniciata dalla porta o dalla finestra, trasformando l'architettura domestica in una prigione emotiva. Il suo sguardo diventa uno specchio della sua solitudine, una solitudine acuita dall'incomprensione per quel figlio che le sta scivolando via, non per cattiveria, ma per una legge inesorabile della crescita. In questo senso, Aparajito è il più crudele dei Bildungsroman, un romanzo di formazione che non celebra tanto la conquista dell'identità, quanto il prezzo pagato per essa. Apu, come il Stephen Dedalus di Joyce, deve forgiare nella fucina della sua anima la coscienza della propria razza, ma per farlo deve tradire, involontariamente, l'amore primigenio che lo ha generato.

Il titolo, "L'invitto", assume così una connotazione profondamente ironica. Apu è "invitto" perché sopravvive alla povertà, alla morte del padre, alla solitudine. Vince la sua borsa di studio, si apre la strada verso un futuro intellettuale. Ma questa invincibilità è pagata con una serie di sconfitte emotive devastanti. La sequenza più celebre e dolorosa del film è emblematica: Apu, assorto nella sua nuova vita a Calcutta, tarda a tornare al villaggio, ignaro della malattia della madre. Quando finalmente arriva, è troppo tardi. Il suo grido disperato, soffocato, mentre scopre la verità da un parente, non è solo il suono del lutto; è il suono della colpa, della consapevolezza tardiva che la sua personale ascensione è stata costruita sulla solitudine di sua madre. È il dramma di ogni generazione che si allontana da quella precedente, un dramma universale che Ray racconta senza una singola nota di sentimentalismo, affidandosi alla pura forza dell'immagine e alla performance straziante di Karuna Banerjee.

Il cinema di Ray, spesso etichettato sbrigativamente come "neorealista", in Aparajito dimostra la sua unicità. Certo, l'influenza di De Sica è palpabile nell'attenzione agli umili, nell'uso di attori non professionisti per ruoli secondari e nelle location reali. Ma dove il neorealismo italiano è spesso cronaca sociale con un sottotesto politico, Ray pratica una sorta di "realismo trascendentale". Non si limita a documentare la realtà; la infonde di un lirismo panteistico e di una profondità psicologica che attingono tanto dalla tradizione letteraria bengalese quanto dal cinema di Jean Renoir, che Ray aveva assistito durante le riprese di Il fiume e che considerava il suo maestro. L'acqua del Gange, il volo degli uccelli, la luce che filtra tra le foglie: ogni elemento naturale non è semplice sfondo, ma un correlativo oggettivo dello stato d'animo dei personaggi, un commento silenzioso e immanente alla fragilità della condizione umana.

A ben vedere, il viaggio di Apu può essere letto come una parabola della stessa India post-coloniale. Un paese che si affaccia alla modernità, affascinato dalla scienza e dalla cultura occidentale (l'inglese, la geografia del globo che Apu studia con avidità), ma che al tempo stesso deve fare i conti con il peso e la ricchezza delle proprie tradizioni ancestrali (rappresentate da Sarbajaya e dal villaggio). Apu è l'uomo nuovo, diviso tra questi due mondi, destinato a non appartenere pienamente a nessuno dei due. La sua solitudine finale, mentre cammina su una strada polverosa portando con sé un misero fagotto, non è la fine della storia, ma l'inizio di una nuova consapevolezza. È invitto, sì, ma è anche irrevocabilmente solo.

Con Aparajito, Satyajit Ray dimostra che il cinema può raggiungere la stessa densità psicologica e la stessa risonanza universale del grande romanzo ottocentesco. È un'opera che rifiuta le facili consolazioni, che ci costringe a contemplare la natura ambivalente del progresso e il dolore intrinseco al semplice atto di vivere e crescere. La storia di Apu cessa di essere la storia di un ragazzo bengalese e diventa la nostra storia: la storia di ogni addio che abbiamo dato, di ogni radice che abbiamo reciso per poter fiorire altrove, e del fantasma di ciò che abbiamo lasciato indietro, che continua a camminare al nostro fianco, per sempre.

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