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Meshes of the Afternoon

1943

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Sgombriamo il campo da ogni equivoco: guardare Meshes of the Afternoon non è un’esperienza narrativa, è un atto di evocazione. È come trovare una chiave arrugginita in un cassetto dimenticato, una chiave che non apre una porta, ma uno stato di coscienza. Quattordici minuti di cinema puro, distillato, che nel 1943 hanno funzionato come un Big Bang silenzioso per l’intero firmamento del cinema sperimentale americano, un’onda d’urto tellurica le cui repliche si avvertono ancora oggi nelle fondamenta delle opere di David Lynch, Satoshi Kon o persino nell'horror psicologico contemporaneo.

Creato da Maya Deren e dal suo allora marito Alexander Hammid con i mezzi di un cineamatore – una cinepresa Bolex 16mm a manovella, nessuna troupe, la loro stessa casa di Los Angeles come set – il film è la cronaca di un sonno, o forse di una morte. Una donna, interpretata dalla stessa Deren con la sua aura da sacerdotessa modernista, insegue una figura ammantata di nero, le cui mani depongono un fiore di papavero artificiale su un sentiero. Lo raccoglie, entra in casa, e da quel momento la realtà si sfalda. La logica aristotelica viene gentilmente accompagnata alla porta e sostituita da una logica associativa, quella del sogno, dove gli oggetti – una chiave, un coltello nel pane, un telefono staccato, un grammofono – diventano feticci carichi di un’energia sinistra e polisemica.

Il film si avvolge su sé stesso in una spirale ipnotica, una struttura a loop che anticipa di decenni le architetture narrative di un Lost Highway o la ciclicità ossessiva di certa videoarte. Ogni ciclo è una variazione sul tema: la Deren si addormenta sulla poltrona e rivive la stessa sequenza di eventi, ma ogni volta con una deviazione, un’intensificazione. Le sue stesse copie si moltiplicano, sedute attorno a un tavolo in una partita a carte con il proprio subconscio. Chi è l'originale? Chi il riflesso? La domanda è irrilevante. Siamo nel regno dell’Unheimlich freudiano, il perturbante che nasce non dal mostruoso, ma dal familiare reso improvvisamente alieno. La casa, archetipo del rifugio, si trasforma in una prigione psichica, un labirinto di specchi dove ogni superficie riflette una versione distorta dell'Io.

È fin troppo facile, e pigro, etichettare Meshes of the Afternoon come un semplice prodotto del Surrealismo. Certo, l'eco di Un Chien Andalou (1929) di Buñuel e Dalí è innegabile. Ma se il capolavoro franco-spagnolo è un assalto anarchico all'occhio e alla ragione, una sequenza di shock visivi programmaticamente sconnessi, l'opera di Deren e Hammid è qualcosa di più sottile e, per certi versi, più inquietante. Non cerca di distruggere la logica, ma di costruirne una alternativa, ermetica e coerente al suo interno. È un “film-trance”, come lo definì la stessa Deren, un rituale filmico progettato per indurre uno stato alterato nello spettatore. La sua grammatica non è quella della veglia, ma quella del mito personale. Ogni inquadratura, ogni taglio di montaggio, è una rima visiva, una connessione poetica. Il coltello che affonda nel pane diventa il coltello che minaccia il sonno; la chiave che cade in slow-motion è un pass per l'abisso interiore.

In questo, il film è più vicino alla corrente di coscienza di una Virginia Woolf che al dadaismo iconoclasta. È un monologo interiore tradotto in immagini, un tentativo di mappare la geografia accidentata della psiche femminile in un’epoca in cui il cinema mainstream relegava la donna a ruoli di sirena o di angelo del focolare. Meshes of the Afternoon è un atto di insubordinazione radicale. La macchina da presa non si limita a osservare la protagonista; spesso è la protagonista. La celebre soggettiva dei piedi che camminano sul selciato, sulla sabbia, sull'erba, è una dichiarazione d'intenti: stiamo vedendo il mondo attraverso i suoi sensi, stiamo abitando la sua percezione. È un cinema tattile, sinestetico, dove il peso di una chiave sul palmo della mano è tangibile quanto l'angoscia che essa rappresenta.

E poi c'è la figura incappucciata, il cui volto è uno specchio. Un’invenzione visiva di una potenza devastante, un'icona che condensa decenni di teoria psicoanalitica. Non è un antagonista esterno, un mostro da sconfiggere. È il Sé, l'Altro da sé, lo sguardo dell'osservatore che si riflette sul soggetto. È il Vuoto che ci guarda, la personificazione della nostra stessa mortalità o, in una lettura junghiana, l’Ombra che ci segue instancabile. Quando, nel climax, la Deren frantuma questo volto-specchio, non sta sconfiggendo un nemico, ma sta tentando di frantumare la propria stessa immagine, un gesto disperato di liberazione che porta solo a un’ulteriore frammentazione.

Il contesto della sua creazione è fondamentale. Siamo nel 1943, nel cuore della Seconda Guerra Mondiale. Mentre Hollywood produceva cinema di propaganda e di evasione, Deren e Hammid, due artisti europei trapiantati in America (lei di origini ucraine, lui cecoslovacco), rivolgevano la cinepresa verso l'interno, esplorando le ansie e le paranoie non della nazione, ma dell'individuo. Il loro film è una risposta non agli eventi del mondo, ma a come quegli eventi si riverberano nelle stanze più segrete della mente. L'arrivo del personaggio maschile (interpretato da Hammid) nella parte finale del film rompe l'incantesimo solipsistico. Lui agisce secondo una logica razionale, mondana: raccoglie il fiore, entra in casa, trova la sua donna addormentata. Ma il suo sguardo, la sua presenza, è un'intrusione. È il principio di realtà che cerca di imporsi sul sogno. E il risultato è catastrofico. La scena finale, con la Deren morta, i frammenti dello specchio sparsi e il mare che sembra invadere la stanza, è di un'ambiguità sublime. È il sogno che uccide la realtà o la realtà che uccide il sognatore? Si è suicidata o è stata "uccisa" dal risveglio?

La colonna sonora, aggiunta solo nel 1959 dal terzo marito di Deren, il compositore giapponese Teiji Ito, merita una menzione a parte. Sebbene anacronistica, è diventata parte integrante dell'opera, un tessuto sonoro percussivo e spettrale che ne amplifica l'atmosfera ritualistica, trasformando la visione in una cerimonia pagana officiata in un salotto borghese.

L'eredità di Meshes of the Afternoon è immensa e tentacolare. Senza la sua esplorazione della paranoia domestica, avremmo avuto il cinema di Roman Polanski in Repulsion o The Tenant? Senza la sua logica onirica e le sue identità fratturate, David Lynch avrebbe mai concepito le strade buie di Mulholland Drive o le stanze rosse di Twin Peaks? La donna in pericolo, non per una minaccia esterna ma per il collasso della sua stessa percezione, è un topos che Meshes ha praticamente inventato e consegnato alla storia del cinema. Il film è una mappa genetica, un codice sorgente da cui sono stati compilati innumerevoli incubi cinematografici. È un portale che, una volta attraversato, modifica per sempre il nostro modo di guardare non solo il cinema, ma anche gli oggetti inanimati di casa nostra, le ombre che si allungano nel pomeriggio e, soprattutto, il nostro stesso volto riflesso in uno specchio.

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