Nanuk l'Eschimese
1922
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Regista
In questa nostra storia del cinema entra anche un ingegnere minerario, esploratore e avventuriero come Robert J. Flaherty. Com’è possibile? Vi chiederete. Il fatto è che Flaherty, nella sua lunga esplorazione delle terre a nord del Canada, girò questo film documentario con l’intento etnologico di fornire all’Occidente un’idea delle condizioni di vita delle popolazioni dei Grandi Ghiacci. Questa peculiare genesi, lontana dai nascenti studi di Hollywood o dalle avanguardie europee, conferisce a Nanuk l'Eschimese una purezza d'intenti quasi archetipica. Flaherty non era un cineasta formatosi nelle accademie, ma un uomo di mondo, la cui macchina da presa divenne un'estensione del suo spirito di scoperta e della sua profonda fascinazione per culture altre. All'inizio del XX secolo, l'Artico era ancora un territorio misterioso e affascinante, un confine ultimo della civiltà occidentale, e l'esplorazione di queste regioni remote suscitava grande interesse sia scientifico che popolare. Il cinema, all'epoca un mezzo relativamente nuovo e in rapida affermazione, si stava definendo come strumento potente non solo di intrattenimento ma anche di comunicazione, divulgazione e, in modi ancora inesplorati, di testimonianza. Flaherty intuì, con una preveggenza sorprendente, le potenzialità del cinema per raccontare storie intrinsecamente umane e per documentare la realtà di esistenze remote con un'immediatezza altrimenti inaccessibile. Non si trattava solo di un reportage, ma di un tentativo di dare forma cinematografica all'esperienza vissuta. E naturalmente ne uscì un’opera di una tale vividezza, di una tale possente forza documentaria, per l'epoca quasi rivoluzionaria nella sua immersività, da non poter passare inosservata nei cineclub e sulle fanzine di critica cinematografica, imponendosi subito come un punto di riferimento ineludibile per chiunque volesse comprendere le nascenti forme del cinema del reale.
La storia è quella di Nanuk, di etnia eschimese (più precisamente un Inuk, il cui vero nome era Allakariallak), e della sua famiglia, una vicenda che si dispiega con la gravitas di un racconto epico pur mantenendo l'intimità di un ritratto personale. La sopravvivenza in condizioni impensabili – il gelo pungente, la scarsità di risorse, l'implacabile vastità bianca – non è qui solo un epifenomeno, ma l'essenza stessa dell'esistenza. La vita di ogni giorno diviene un atto di armonia con una natura tanto ostile quanto, nella sua grandiosità, profondamente affascinante e terribile. Il film ci mostra, attraverso il ciclico succedersi delle stagioni artiche, la lotta quotidiana di questa comunità per sopravvivere in un ambiente che è al contempo matrice e sfidante. Dalla caccia alla foca, un rito di pazienza e astuzia che rivela la profonda conoscenza dell'ecosistema e del comportamento animale, alla costruzione dell'igloo, un capolavoro di ingegneria vernacolare eretto con destrezza sorprendente per fornire rifugio dal freddo estremo, Nanuk e la sua famiglia affrontano le sfide della natura, dalla rigida e buia stagione invernale alla breve e intensa estate di luce perenne. Flaherty, con la sua macchina da presa quasi fosse un occhio partecipe e rispettoso, cattura la bellezza maestosa e la cruda, disarmante autenticità della vita artica, mostrandoci un popolo profondamente legato alla terra, ai suoi ritmi immemoriali e alle sue leggi non scritte. Attraverso le immagini potenti e la narrazione, a tratti didascalica ma sempre evocativa, il regista ci invita a riflettere non solo sulla resilienza dello spirito umano di fronte all'avversità, ma soprattutto sul rapporto simbiotico e, a volte, brutale tra l'uomo e la natura, e sulla fragile ma sublime bellezza di una cultura millenaria che, purtroppo, era già allora sulla via di un inesorabile tramonto, rendendo il film anche un prezioso atto di "salvage ethnography", il tentativo di preservare una testimonianza di una cultura prima che svanisse.
Nanuk l'eschimese è, a ragione, considerato uno dei primi e più influenti esempi di documentario moderno, un vero e proprio archetipo che ha plasmato l'immaginario collettivo sulla rappresentazione delle culture indigene. Flaherty, con la sua pellicola, ha non solo contribuito a definire i canoni embrionali del genere, ma ha anche posto interrogativi fondamentali sull'etica e l'estetica della rappresentazione del reale. Dimostrò come il cinema potesse essere utilizzato non solo per osservare ma anche per interpretare e rappresentare la realtà, forgiando un linguaggio che andava oltre il mero "vedere", tendendo piuttosto a un "sentire". È qui che si situa la sua geniale intuizione del "realismo poetico", un approccio in cui la realtà non viene semplicemente registrata, ma filtrata e riassemblata attraverso una lente intrinsecamente soggettiva e artistica. Le immagini sono spesso suggestive ed evocative, cariche di un lirismo visivo che eleva il quotidiano all'epico, e la narrazione è lenta, meditativa, quasi ieratica, permettendo allo spettatore di immergersi completamente in un tempo e in uno spazio altri. Flaherty non si limitò a "creare" il genere documentaristico nel senso che ne codificò le regole, quanto piuttosto ne aprì le porte, tracciando un percorso che avrebbe influenzato generazioni di cineasti, da John Grierson – che avrebbe coniato il termine "documentario" e ne avrebbe teorizzato la funzione sociale – ai neorealisti italiani che avrebbero cercato la verità nella quotidianità, fino ai registi di "direct cinema". La sua più grande intuizione sta nel bruciante realismo del reportage, nella capacità di presentare un crudo susseguirsi di scene di vita con una tale autenticità percepita che le sue inevitabili messe in scena, i piccoli "tradimenti" della realtà per esigenze narrative o di ripresa (come la celebre scena dell'igloo più grande costruito appositamente e senza soffitto per far entrare la luce per le riprese, o l'uso di attrezzi già desueti per enfatizzare la "purezza" di una cultura), divengono quasi irrilevanti di fronte all'impatto emotivo complessivo. Nonostante le moderne critiche sulla sua metodologia "inscenata", la grandezza di quest'opera risiede proprio nel suo silente atto di purezza, nella capacità di far dissolvere l'artificio filmico per lasciare spazio ad una Natura di bruciante bellezza colta nel suo ferino, indomito dispiegarsi, un inno alla vita colta nella sua forma più essenziale e vulnerabile. A oltre un secolo di distanza, Nanuk l'Eschimese sa ancora emozionarci profondamente, interrogarci sul nostro posto nel mondo e ricordarci la potenza senza tempo del cinema come ponte tra culture e finestre sull'anima umana.
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