Non aprite quella porta
1974
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Regista
Un flash fotografico lacera il buio. Un suono gutturale, umido, come di terra smossa da poco. E poi un altro. E un altro ancora. L'inizio di Non aprite quella porta non è una sequenza narrativa, ma un'aggressione sensoriale, un assalto stroboscopico che dissotterra cadaveri decomposti illuminandoli come macabre opere d'arte per una frazione di secondo. Tobe Hooper non ci sta invitando a vedere un film; ci sta inoculando un'infezione, un malessere che si insinuerà sotto la pelle per i successivi ottanta minuti. Girato in un 16mm granuloso e saturo, sotto il sole spietato del Texas, il film ha l'aspetto non di un'opera di finzione, ma di un reperto, di una prova recuperata da una scena del crimine ontologicamente irrisolvibile. È un pezzo di cinema che sembra sudare, puzzare di benzina e carne rancida, un documento febbrile partorito dal ventre molle del Sogno Americano in piena crisi di rigetto.
Siamo nel 1974. L'America sta ancora leccandosi le ferite del Vietnam, l'innocenza della Summer of Love è un ricordo sbiadito e l'affare Watergate ha eroso ogni fiducia residua nell'autorità e nelle istituzioni. Il paese è in piena crisi energetica, le code ai distributori sono chilometriche. In questo clima di disfacimento, il furgoncino Volkswagen dei nostri protagonisti – archetipi di una controcultura ormai svuotata di ogni slancio utopico – che si ferma a secco in una landa desolata non è un semplice espediente narrativo. È la metafora perfetta di una nazione che ha esaurito il carburante, smarrita e in balia di forze primordiali che credeva di aver seppellito sotto strati di progresso e perbenismo. La civiltà, ci suggerisce Hooper, è un lusso che dipende da un pieno di benzina.
Il genio del film risiede nel suo rifiuto quasi totale delle convenzioni dell'horror. Non ci sono mostri soprannaturali, né un'elaborata mitologia. C'è solo una famiglia. Una famiglia di macellai, resi obsoleti dalla tecnologia dell'industria della carne, che ha semplicemente deciso di applicare le proprie competenze artigianali alla nuova materia prima disponibile: i viaggiatori. Il loro cannibalismo non è un atto di malvagità demoniaca, ma la logica, perversa conseguenza di un pragmatismo rurale portato all'estremo. In questo, Hooper si rivela un erede inaspettato del gotico sudista di Flannery O'Connor o William Faulkner. I suoi personaggi sono figure grottesche e deformi, non tanto nel fisico quanto nello spirito, prodotti di un isolamento e di una decadenza che hanno corroso i fondamenti stessi dell'umano. La loro casa non è un castello infestato, ma una versione da incubo della fattoria americana, adornata con un bric-à-brac di ossa e pelle umana che riecheggia le tele più disturbanti di Francis Bacon o i "Capricci" di Goya: un trionfo dell'abietto, dove i confini tra umano e animale, tra decorazione e dissezione, sono collassati.
Al centro di questo nucleo familiare putrefatto si erge Leatherface, una delle figure più fraintese della storia del cinema. A differenza degli assassini iconici che verranno dopo di lui – i Freddy Krueger, i Jason Voorhees – Leatherface non è un'entità malvagia e onnipotente. È un omone infantile, terrorizzato e sottomesso, la cui unica funzione è quella di essere il braccio armato, il macellaio, della famiglia. Le sue maschere, cucite con la pelle delle vittime, non servono a nascondere un'identità, ma a crearne una, a seconda del ruolo che deve interpretare nel folle teatrino domestico: "The Killing Mask", "The Old Lady Mask", "The Pretty Woman Mask". È un essere privo di un sé, un involucro di pura funzione. La motosega, più che un'arma, è il suo strumento di lavoro, un'estensione del suo corpo, e il suo ruggito assordante diventa la voce afona della sua rabbia e della sua confusione. Non c'è sadismo calcolato nelle sue azioni, solo un'obbedienza cieca e una violenza panica, quasi animale.
La sequenza della cena è forse uno dei vertici più alti mai raggiunti dal cinema dell'orrore. Non per il sangue, che Hooper mostra con una parsimonia quasi ascetica, ma per la sua insostenibile crudeltà psicologica. Sally, legata a una sedia fatta di resti umani, è costretta a partecipare a una parodia mostruosa del focolare domestico. Il nonno decrepito, ridotto a una crisalide vivente, che tenta goffamente di colpirla con un martello, è un'immagine di una potenza atroce, che trasforma la violenza in una farsa geriatrica e umiliante. L'intera scena è un attacco frontale al mito fondativo della famiglia nucleare, smascherata come una struttura patriarcale basata su rituali di consumo e sopraffazione. Il sonoro, un cacofonico collage di urla, risate sguaiate, il ronzio del generatore e il pianto isterico di Sally, si fonde con le immagini in un'esperienza sinestetica di puro terrore. Hooper ci spinge al limite, costringendoci a guardare, attraverso il celebre, lancinante primo piano sull'occhio di Marilyn Burns, l'abisso della follia umana. In quell'occhio dilatato non c'è solo il riflesso dei suoi aguzzini, ma il riflesso di noi stessi, spettatori impotenti di fronte al collasso di ogni ordine sociale.
Il film, nella sua rozza e brutale immediatezza, si presta a letture stratificate. È una critica feroce all'industria della carne, che riduce gli esseri viventi a prodotti da disassemblare su una catena di montaggio. È un'allegoria sulla lotta di classe, dove i reietti di un'America rurale e dimenticata si vendicano sui figli privilegiati e spensierati della città. È un commento meta-testuale sulla natura stessa della visione: il titolo è un avvertimento diretto allo spettatore, un divieto che sappiamo già verrà infranto, rendendoci complici voyeuristi del massacro.
Ma al di là di ogni interpretazione, Non aprite quella porta rimane un'esperienza fisica, viscerale. È un film che si sente addosso, come il caldo umido che appiccica i vestiti alla pelle. La sua eredità non risiede tanto negli innumerevoli slasher che ha generato, quanto nella sua capacità di dimostrare che l'orrore più autentico non ha bisogno di effetti speciali o di spiegazioni complesse. Emerge dal reale, dall'ordinario che diventa mostruoso, dal suono di una porta di metallo che si chiude con un tonfo sordo, sigillando ogni via di fuga. La danza finale di Leatherface, una silhouette nera che agita la sua motosega contro il sole nascente in un balletto di rabbia impotente, è l'epifania del terrore. Non è una celebrazione della vittoria, ma il lamento disperato di un mondo che ha perso la ragione, un'immagine primordiale che si stampa a fuoco nella retina e si rifiuta di svanire. È la fine del film, ma è solo l'inizio dell'incubo.
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