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Onibaba

1964

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Un mare di altissima erba è scosso dal vento che sembra avvinghiarsi ai teneri steli giocando a creare turbinanti increspature. Ovunque si spinga l’occhio c’è Susuki sedotta dal vento, l’erba di pampa giapponese che nasconde le cose e gli uomini come un enorme Demone dormiente. L’immagine di apertura di Onibaba è di una bellezza raggelante. Kaneto Shindo, finissimo esteta, sceglie così l’incipit del suo film, introducendo obliquamente la narrazione e lasciando parlare a lungo la Natura e i suoi tenebrosi artifici, in un bianco e nero che srotola questo bucolico incanto con studiata malia, lasciando lo spettatore in balia del cupo ululato del vento e di una musica gutturale e cacofonica. Questa scelta non è meramente stilistica; il bianco e nero, in particolare, accentua i contrasti, rendendo le ombre più dense e la luce più cruda, quasi a voler denudare l'essenza stessa di un mondo primordiale, dove la natura è sia rifugio che minaccia ineluttabile. Il Susuki, con la sua maestosa e ingannevole bellezza, si erge a vero e proprio personaggio, un labirinto verdeggiante che nasconde segreti, incubi e la cruda realtà della sopravvivenza. Non è solo uno sfondo, ma una barriera vivente, un confine permeabile tra l'umano e il bestiale, il visibile e l'invisibile, un'entità quasi senziente che osserva e inghiotte. La sua onnipresenza e il suo movimento incessante, evocato dal vento, creano un senso di claustrofobia e isolamento, trasformando il paesaggio in una prigione a cielo aperto. Il sonoro, con il suo ululato quasi animale e quelle dissonanze che graffiano l'anima, completa il quadro di un'immersione sensoriale nella desolazione, preannunciando la brutalità degli eventi a venire e ancorando il racconto a una dimensione quasi mitologica, dove la sopravvivenza si fa rituale ancestrale.

Due samurai feriti e in fuga cercano riparo in questa brulicante barriera verde tentando di sfuggire ai nemici a cavallo. Una volta credutisi in salvo crollano sfiniti a terra. Ed è proprio in quell’istante di effimera salvezza che vengono colpiti da una lancia invisibile che li uccide all’istante. Dal folto dell’erba appaiono due figure femminili, sono le ladre e le assassine protagoniste della storia. Due donne cui la guerra ha portato via gli uomini che lottano per sopravvivere uccidendo soldati e vendendo le loro spade e armature per un pugno di miglio. La più anziana è la madre del marito della giovane, entrambe vivono in una capanna nascosta dagli alti steli di Susuki, una vita di povertà e sacrifici in attesa del ritorno del figlio. Siamo nel XVI secolo, in piena guerra Onin che oppone i Kanrei, i signori feudali, in una lotta feroce e senza quartiere. La sopravvivenza della popolazione civile in questo periodo è davvero messa a dura prova: le coltivazioni vengono distrutte, gli uomini sono tutti impegnati negli scontri e donne, bambini e anziani muoiono di fame nelle campagne. La routine delle due donne viene stravolta dall’arrivo di un vicino di casa, compagno di battaglia del figlio Kichi, che ritorna a casa dopo atroci vicende belliche. L’uomo annuncia che Kichi è morto in guerra e ne seduce la moglie in un serrato corteggiamento che sfocia in una passione sfrenata tra i due. La madre di Kichi si oppone a questa relazione in ogni modo, avendo egoisticamente paura di rimanere sola e di non essere più in grado nè di uccidere nè di rubare per sopravvivere. Così escogita un diabolico piano: ruba una maschera demoniaca ad un samurai di passaggio, uccidendolo, e usa questo travisamento per spaventare la nuora ed allontanarla dai piaceri della carne. Ma il potere che cela la Maschera si ritorcerà contro la donna in un terribile coup de théâtre finale. Ma al di là della mera successione degli eventi, Shindo intesse una complessa allegoria sulla natura umana e sulla forza corruttrice della disperazione. L'uccisione iniziale dei samurai, avvenuta con una "lancia invisibile", non è un semplice espediente narrativo; è un presagio, una metafora della violenza arbitraria che governa quel mondo e che si insinua nelle vite dei deboli, rendendoli carnefici a loro volta. L'erba di Susuki, qui, non è più solo nascondiglio, ma complice silente di un ciclo di morte che si autoalimenta. La figura della madre, ossessiva e reazionaria, incarna una paura atavica della solitudine e della perdita di controllo, una dipendenza viscerale dalla nuora che trascende l'affetto filiale per sfociare in pura manipolazione. La sua opposizione alla sessualità e al desiderio della giovane non è solo egoismo; è il rifiuto della vita che cerca di farsi strada in un contesto di morte, è la paura che il piacere possa distogliere dalla lotta per la sopravvivenza, indebolendo l'alleanza forzata tra le due donne. L'arrivo di Hachi sconvolge non solo gli equilibri fisici, ma soprattutto quelli psicologici ed emotivi, innescando una reazione a catena che porta all'emersione di istinti primordiali. La Maschera demoniaca, sottratta a un samurai già deformato nella sua umanità dalla guerra e dal fetore della morte, trascende il suo ruolo di mero travestimento. Essa diviene un simbolo potentissimo: incarnazione della gelosia, del risentimento, della perversione, ma anche del peso delle azioni passate e del karma. Ricorda le maschere del teatro Noh, non solo per la sua estetica inquietante, ma per la sua capacità di trasformare l'attore in un'entità ultraterrena, di rivelare l'essenza spirituale o demoniaca del personaggio. Qui, però, la maschera non è un accessorio temporaneo; essa si fonde con la pelle, diviene tutt'uno con l'identità, rivelando la bestialità latente e la corruzione interiore che la guerra ha instillato negli animi. L'orrore di Onibaba non è sovrannaturale, ma profondamente umano, radicato nella miseria e nella disumanizzazione.

L’interesse di Shindo non è per la guerra ma per chi la subisce. Il suo vigile occhio è puntato sui più deboli e sui mille artifici che questi mettono in atto per sopravvivere. In una famosa dichiarazione il regista ebbe infatti a dire: “Il mio occhio, o meglio l’occhio della telecamera, è puntato per osservare il mondo dal livello più basso della società. E se devi guardare la società attraverso gli occhi di quelli che stanno al livello più infimo di essa, non puoi sfuggire al fatto che devi sperimentare e percepire tutto con il senso della lotta politica tra le classi.”. Ed è proprio questa immane battaglia per la sopravvivenza il punto focale delle sue opere. Ricordiamo L'Isola Nuda e l’asprezza della vita dei protagonisti per riuscire a coltivare un brano di terra strappandolo alla furia della Natura. Anche in Onibaba questa tremenda tensione alla vita dei più umili è la corda che fa vibrare la narrazione, ed è in definitiva il suo atroce incanto. Questa prospettiva, che Shindo definiva come "l'occhio della telecamera" puntato "dal livello più basso della società", non è un vezzo stilistico ma il cuore pulsante della sua poetica, un manifesto politico e umanitario che risuona profondamente nel Giappone del dopoguerra, ancora segnato dalle cicatrici di un conflitto devastante. Se in 'L'Isola Nuda' la lotta era primariamente contro la Natura avversa e la fatica fisica, in 'Onibaba' a questa si aggiunge la putrefazione morale e spirituale, la discesa nella bestialità quando la civiltà cede il passo all'istinto di conservazione. Il film, infatti, pur ambientato nel XVI secolo, è una riflessione atemporale sulla guerra e sulle sue conseguenze sull'anima umana, un grido disperato contro la disumanizzazione che essa comporta. L'orrore di 'Onibaba' non è generato da fantasmi esterni, ma dai demoni interiori che la disperazione e la privazione scatenano. La maschera non è un elemento fantastico aggiunto; è il volto che la fame e la paura forgiano, un simbolo quasi espressionista del tormento interiore. Shindo si dimostra un maestro nel distillare l'essenza della crudeltà umana, svelando come la guerra non solo distrugga corpi e infrastrutture, ma corroda le relazioni più intime e trasformi gli individui in predatori. Il suo sguardo lucido e disincantato si sofferma sull'animalità che emerge quando tutte le sovrastrutture sociali crollano, quando la morale diventa un lusso inaccessibile. In questo, 'Onibaba' si colloca tra i grandi film esistenzialisti del cinema giapponese, capace di esplorare i limiti della dignità umana in circostanze estreme, lasciando lo spettatore a confrontarsi con la propria capacità di sopravvivenza e di compromesso, ben oltre i confini del semplice racconto storico. È un'opera che, con la sua estetica potente e il suo messaggio crudo, continua a interrogare la nostra stessa natura, la nostra capacità di cadere e di rialzarci, o di sprofondare in un abisso di barbarie quando il velo della civiltà si squarcia.

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