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Police Story

1985

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Nel 1985, il cinema d'azione era dominato dai muscoli oliati e dalla balistica pesante. Stallone e Schwarzenegger erano divinità di granito che camminavano, eroi invulnerabili i cui combattimenti erano esercizi di statuaria e montaggio rapido. Nello stesso anno, a Hong Kong, Jackie Chan, frustrato dai suoi tentativi falliti di sfondare in America (dove Hollywood aveva cercato goffamente di trasformarlo in un clone di Bruce Lee o in una versione di Burt Reynolds in Chi tocca il giallo), decise di prendere il controllo totale. Scrivendo, dirigendo e coreografando, Chan scatenò Police Story, un film che non si limitò a ridefinire il genere, ma lo fece letteralmente a pezzi, vetro dopo vetro. È l'atto di nascita del cinema d'azione moderno, un'opera di una fisicità così estrema e di un'inventiva così pura da far sembrare i suoi contemporanei occidentali lenti, goffi e privi di immaginazione.

Police Story è un manifesto. La sequenza di apertura stabilisce immediatamente le nuove regole: non siamo più nel tempio Shaolin, siamo in una shantytown. La prima grande scena non è un duello di forme animali; è un inseguimento automobilistico caotico che ignora le strade e si svolge attraverso le baracche. Chan, al volante, non è un pilota di precisione, è una forza della natura disperata. Questa sequenza culmina con uno dei "ganci" più letterali della storia del cinema: Chan che si aggrappa a un autobus a due piani in fuga usando solo un ombrello. In questi primi dieci minuti, Chan sta urlando al pubblico la sua tesi: il protagonista, Chan Ka-Kui, non è un maestro di arti marziali. È un poliziotto, un "everyman" disperato che, come Buster Keaton o Harold Lloyd, usa il mondo che lo circonda per sopravvivere alla gravità e al caos, spesso fallendo miseramente.

La genialità del film risiede nella sua schizofrenia tonale. Jackie Chan fonde, senza soluzione di continuità, la commedia slapstick più pura con una violenza fisica brutale e realistica. Chan Ka-Kui è un eroe vulnerabile. Quando viene colpito, sanguina. Quando corre, ansima. Quando salta, sentiamo il dolore dell'atterraggio. Questa vulnerabilità è il motore della commedia. La sua vita personale è un disastro, incarnato dalla sua ragazza May (una giovanissima Maggie Cheung, che inaugura qui la sua carriera di "fidanzata più sfortunata e sofferente del cinema"). La sequenza in cui Ka-Kui è costretto a gestire simultaneamente tre linee telefoniche nel suo ufficio—mentendo alla fidanzata, rassicurando la testimone (Brigitte Lin, nel ruolo di Salina Fong) e ingannando il suo capo—è un capolavoro di coreografia comica. È puro vaudeville, un balletto di bugie, cavi aggrovigliati e panico crescente che stabilisce il personaggio meglio di qualsiasi dialogo.

È proprio questa maestria nel fondere il comico e il brutale ad aver avuto un'influenza incalcolabile. Quando si analizza la filmografia di Quentin Tarantino, per esempio, l'influenza del cinema di Hong Kong è palese, ma mentre molti indicano (correttamente) i film della Shaw Brothers per Kill Bill, l'impatto di Police Story è forse più profondo a livello strutturale. La celebre lotta in cucina tra La Sposa e Vernita Green in Kill Bill Vol. 1 è puro Jackie Chan. Non è un duello di spade coreografato; è una rissa disperata che utilizza l'ambiente. Usano coltelli, una padella, un tagliere, persino una scatola di cereali. Ogni oggetto diventa un'arma, e ogni impatto ha un peso realistico e doloroso. Questa filosofia—l'uso creativo e improvvisato dell'ambiente come arsenale—è il marchio di fabbrica di Chan. Inoltre, la capacità di Tarantino di passare da una violenza sconvolgente a una gag quasi infantile (come La Sposa che cerca di "muovere l'alluce") è un diretto discendente della schizofrenia tonale che Chan ha perfezionato in Police Story.

Ma se la commedia definisce il personaggio, è l'azione a rendere il film immortale. La sequenza finale, ambientata in un centro commerciale di Tsim Sha Tsui, è il punto più alto del cinema d'azione degli anni '80. È un'orgia di distruzione di otto minuti che ridefinisce il concetto di stunt. È qui che il vero protagonista del film si rivela: il vetro. La quantità di vetro temperato sacrificata in nome di questo finale è leggendaria. Chan e il suo JC Stunt Team (la sua squadra di stuntman suicidi) non si limitano a combattere nel centro commerciale; combattono con il centro commerciale. Le scale mobili diventano armi cinetiche, i manichini diventano scudi, le vetrine non sono ostacoli ma obiettivi. Una moto che sfreccia attraverso un muro di vetro non è il culmine, è solo l'antipasto.

Tutto questo porta al momento. Lo stunt che ancora oggi lascia senza fiato. Con il cattivo che lo sbeffeggia da diversi piani più in basso, Ka-Kui si trova di fronte a un palo di metallo al centro dell'atrio, un palo avvolto in migliaia di luci natalizie. In un'unica, ampia inquadratura, senza tagli, senza reti e senza controfigure, Jackie Chan salta nel vuoto. Si aggrappa al palo, scivola per cinque piani mentre le luci esplodono in una cascata di scintille a causa dell'attrito e del calore, e infine si schianta attraverso un tetto di vetro decorativo, atterrando su un chiosco al piano terra. È un atto di tale follia atletica, un tale disprezzo per la propria incolumità (Chan si fratturò due vertebre e si dislocò il bacino), che trascende lo stunt e diventa performance art.

La decisione di Chan di concludere il film con i famosi bloopers (gli errori sul set) durante i titoli di coda non è un vezzo. È la chiave di lettura dell'intero film. Mostrandoci i fallimenti, gli incidenti, il dolore reale, Chan non sta infrangendo l'illusione; la sta rafforzando. Ci sta dicendo: "Quello che avete visto non è un trucco di montaggio. È reale. È costato questo". È un patto di onestà con il pubblico. Police Story non è solo un film d'azione; è un documentario sulla dedizione, un testamento al sacrificio fisico e la prova che, per un breve, glorioso momento nel 1985, un uomo ha ridefinito ciò che era possibile fare con un corpo umano e una macchina da presa.

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