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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Possession

1981

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Possession è un'opera che, a distanza di decenni, conserva intatta la sua capacità di aggredire lo spettatore, di artigliargli la psiche e di non lasciarla andare. Se il cinema è spesso uno specchio della realtà, quello di Andrzej Żuławski è uno specchio infranto, i cui frammenti riflettono solo angoscia, isteria e un orrore metafisico. Girato nel 1981, nel pieno della Guerra Fredda, il film è l'autopsia più brutale e viscerale mai eseguita su un matrimonio. Żuławski, attingendo al dolore del suo stesso divorzio, mette in scena un esorcismo, una scissione cellulare così violenta da lacerare il tessuto della realtà stessa, partorendo letteralmente dei mostri da una vescica purulenta.

L'ambientazione è il primo personaggio, e forse il più importante. Siamo a Berlino Ovest, ma a pochi metri dal Muro. Non è una città; è una ferita aperta, un non-luogo sospeso tra due ideologie, intriso di paranoia, spionaggio e un senso palpabile di fine del mondo. La macchina da presa di Bruno Nuytten (fluida, ipercinetica, quasi febbricitante) si muove in appartamenti spogli, strade grigie e stazioni della metropolitana che sembrano gironi infernali. L'architettura del Muro, con le sue torrette di guardia e il suo filo spinato, è l'ovvio correlativo oggettivo della prigione emotiva in cui i protagonisti sono rinchiusi. Questa schizofrenia politica, questa divisione letterale del mondo, è l'unico palcoscenico su cui la schizofrenia psicologica e fisica del film può manifestarsi.

La trama è ingannevolmente semplice: Mark (Sam Neill), una spia, torna a casa da una missione e trova sua moglie, Anna (Isabelle Adjani), che vuole il divorzio. Il loro amore è evaporato, sostituito da un'ostilità che sconfina nella follia. La prima metà del film è un Kammerspiel sotto anfetamine. È un duello coniugale che rifiuta il naturalismo per abbracciare un'isteria operistica. I personaggi non parlano, urlano. Non discutono, hanno convulsioni. Sam Neill, in un ruolo che lo vede oscillare tra la rabbia impotente e la depressione catatonica, si lancia contro i muri, si auto-mutila (la scena del coltello elettrico) e singhiozza in un crescendo di disperazione maschile. È un uomo razionale (una spia) che si dissolve a contatto con l'irrazionale.

Ma se Neill è la terra che frana, Isabelle Adjani è il vulcano che erutta. La sua performance (che le valse, incredibilmente, il premio come Miglior Attrice a Cannes) è una delle più terrificanti e coraggiose della storia del cinema. Non è recitazione; è auto-immolazione. È un'esplorazione fisica del collasso psicotico. Anna è posseduta, non da un demone, ma da un'idea, da un bisogno di liberazione così assoluto da dover distruggere il suo vecchio sé. La sua performance raggiunge l'apice in quella che è, forse, la scena più indimenticabile e sconvolgente del film: il "parto" nel sottopassaggio della metropolitana. È un piano sequenza ininterrotto in cui Anna, carica di borse della spesa che si rompono (rovesciando latte e uova, simboli di vita e nutrimento), ha una crisi convulsiva contro il muro bianco piastrellato. È un aborto, una nascita, un orgasmo e un omicidio, tutto in uno. È il momento in cui la sua possessione diventa fisica, espellendo e generando qualcosa di non umano.

Possession si sposta qui dal dramma psicologico all'orrore cosmico. Mark sospetta un amante. Trova Heinrich (Heinz Bennent), un guru new age in vestaglia, l'epitome dell'amante intellettuale e assurdo, che predica la pace mentre viene picchiato. Ma la loro lotta è quasi comica, una distrazione. L'investigatore privato assoldato da Mark scopre la verità: Anna ha un secondo appartamento. E in quell'appartamento c'è l'Altro. C'è l'Amante. C'è la "cosa". Disegnata da Carlo Rambaldi (lo stesso di E.T.), la creatura tentacolare che Anna nutre, accudisce e con cui ha rapporti sessuali, è il cuore nero del film. È la metafora definitiva: la "cosa" che si frappone tra una coppia non è un altro essere umano, è l'incarnazione del desiderio di Anna di creare qualcosa di nuovo, un dio personale, un essere che la ami totalmente, al di fuori delle convenzioni umane.

Żuławski complica ulteriormente questa cosmologia del dolore introducendo il tema del Doppelgänger. Mark incontra Helen (sempre Adjani, ma con occhi verdi e un contegno sereno), l'insegnante del loro figlio, che è l'esatto opposto di Anna: è pura, dolce, domestica. È l'ideale femminile che Mark ha perso. Nel frattempo, la creatura nell'appartamento, nutrita di sangue e sesso, inizia la sua metamorfosi finale, evolvendo fino ad assumere le sembianze di Mark stesso, ma con gli occhi verdi di Helen. Il film suggerisce che l'unico modo per Mark e Anna di "rinascere" dopo la morte del loro amore è creare dei doppi perfetti, delle versioni idealizzate e mostruose di sé stessi.

L'apocalisse finale, con i due Mark e le due Anna che si confrontano mentre fuori la città sprofonda nel caos (sirene, elicotteri, un'esplosione che sembra atomica), è la conclusione logica di questa sinfonia della distruzione. Il film non è un horror sul soprannaturale; è un film dell'orrore sulla codipendenza. È un saggio su come due persone possano amarsi così tanto da distruggersi a vicenda nel tentativo di separarsi, e su come, per riempire il vuoto lasciato dall'altro, siano disposte a generare mostri. Possession rimane un'opera unica, un monolite di puro terrore emotivo, un film che non si limita a raccontare una crisi, ma costringe lo spettatore a viverla in tempo reale, lasciandolo esausto, scosso e irrevocabilmente cambiato.

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