Rashômon
1950
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Regista
Nel Giappone feudale del 12esimo secolo una donna viene violentata e suo marito ucciso. Un evento apparentemente semplice, eppure, nelle mani del Maestro Akira Kurosawa, diviene il pretesto per una vertiginosa indagine sulla natura stessa della verità. Kurosawa disseziona questo crimine disponendolo in un vetrino da microscopio e fornendone diverse versioni che formeranno un quadro d’insieme via via più nitido e spietato, ma mai del tutto risolto. Il genio di Kurosawa risiede qui nella sua magistrale rielaborazione di due racconti di Ryūnosuke Akutagawa, "In a Grove" e "Rashōmon", fondendo la struttura investigativa del primo con l'atmosfera desolata e la riflessione sulla decadenza morale del secondo, la cui porta fatiscente diviene la cornice metaforica di un'umanità in rovina.
Ogni personaggio implicato in questa vicenda – il bandito Tajōmaru, la donna violentata Masako, lo spirito del samurai Takehiro, il boscaiolo e il monaco che assistono al processo – è parte di un complesso meccanismo semantico che fornisce un tenue spiraglio sulla Verità Ultima dei fatti, ogni fonte è una tessera del puzzle del Reale. Ma un puzzle le cui tessere non combaciano mai perfettamente, rivelando non tanto una disonestà intrinseca, quanto piuttosto l'inesorabile condizionamento della prospettiva e dell'ego. La menzogna, qui, non è pura e semplice alterazione, bensì una sorta di difesa psicologica, una ricostruzione della realtà filtrata dal bisogno di preservare la propria immagine, di proteggere la propria fragilità o di riscattare una dignità perduta. Una vicenda dapprima drammatica poi grottesca, che via via prende consistenza alla luce dei racconti, rivelando un crescendo di assurdo e di patetico che smaschera l’ipocrisia intrinseca della natura umana.
Un’opera che intesse una filosofia secondo la quale la realtà è costituita di innumerevoli versioni diverse, figlie della psiche umana e della traiettoria soggettiva che acquista ogni singolo evento reale. Questa "relatività della verità" non è un mero esercizio di stile, ma una profonda indagine epistemologica che anticipa di decenni dibattiti culturali e filosofici sulla post-verità. Non è un caso che il film abbia dato il nome all'effetto Rashomon, un fenomeno psicologico per cui testimoni di un medesimo evento riportano versioni contraddittorie e soggettive. Si potrebbe tracciare un parallelo con il Pirandello di "Così è (se vi pare)", dove la verità oggettiva si dissolve di fronte alla molteplicità delle percezioni individuali, o con le narrative frammentate della letteratura modernista, dove la coscienza individuale diviene il prisma attraverso cui il mondo è percepito e reinterpretato.
Una tassonomia della diffrazione, una disarmonia prestabilita che ci stordisce, ci inebria, ci porta a parteggiare per l’una o l’altra versione, lasciandoci poi in un limbo di incertezza morale. È un'esperienza intellettuale che sfida lo spettatore a confrontarsi con i propri pregiudizi e le proprie certezze, una lezione di umiltà di fronte all'insondabile complessità dell'esistenza. Kurosawa, con un tocco da maestro pittore, utilizza la luce e l'ombra come pennelli per dipingere questa ambiguità. La celebre fotografia di Kazuo Miyagawa, con i suoi giochi di luce solare che filtra tra le fronde degli alberi e si scontra con le ombre profonde del bosco, non è solo estetica: è un riflesso visivo della confusione morale e dell'opacità delle intenzioni umane. Il bagliore accecante del sole simboleggia forse l'illusione di una verità chiara, mentre le ombre celano le menzogne e i segreti inconfessabili.
Un Kurosawa che giganteggia dietro la macchina da presa, con inquadrature mai ridondanti, tese a snudare l’animo umano e i suoi meschini rivolgimenti. La dinamicità della cinepresa, che segue i personaggi attraverso il denso sottobosco o si sofferma sui loro volti deformati dall'ansia e dalla menzogna, contribuisce a creare un senso di claustrofobia e inevitabilità. Il setting della porta di Rashōmon stessa, spettrale e cadente, non è solo uno sfondo: è il simbolo di un Giappone del dopoguerra che, come i suoi personaggi, cerca di ricostruire una verità, una dignità, dalle macerie della sconfitta e della disillusione.
Da menzionare l’interpretazione di Toshiro Mifune, attore-feticcio idealizzato in gran parte della filmografia del Maestro nipponico, che qui incarna il bandito Tajōmaru con una fisicità primordiale, quasi animalesca. La sua performance è un turbine di energia selvaggia, di risate sguaiate e di sguardi penetranti che catturano l'essenza di un personaggio tanto brutale quanto, a tratti, patetico nella sua vanagloria. La sua presenza scenica è talmente magnetica da rubare quasi la scena, eppure si integra perfettamente nel mosaico di illusioni e autoinganni tessuti dal film.
"Rashōmon", premiato con il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1951, non solo aprì le porte del cinema giapponese al pubblico occidentale, ma consolidò la reputazione di Kurosawa come uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi. La sua influenza è stata immensa, plasmando generazioni di registi e influenzando la narrativa in ogni medium. Rimane un monito senza tempo sulla fragilità delle certezze e sulla persistente, forse eterna, elusività della Verità.
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