Salesman
1969
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Figure spettrali si aggirano per i corridoi di motel anonimi, fantasmi partoriti da un sogno americano che ha iniziato a mostrare le sue crepe più profonde. Portano con sé valigie pesanti non tanto per il loro contenuto – lussuose edizioni della Bibbia rilegate in finta pelle – quanto per il peso delle aspettative disattese. Questi sono i commessi viaggiatori di Salesman, il capolavoro del 1969 dei fratelli Maysles, un documento che trascende il cinema-verità per diventare un requiem desolato, un’autopsia a cuore aperto condotta sull’etica capitalista nel momento stesso in cui essa si ammantava di sacralità.
Vedere Salesman oggi è come scoprire una capsula del tempo che non contiene memorabilia, ma l’essenza ontologica di una tragedia nazionale. È impossibile non pensare immediatamente al Willy Loman di Arthur Miller. Se Morte di un commesso viaggiatore è la sublime formalizzazione teatrale del fallimento di un uomo schiacciato dal mito del successo, Salesman è il suo corrispettivo ectoplasmatico, la sua terrificante manifestazione nel mondo reale. Paul Brennan, soprannominato "The Badger" (Il Tasso), è Willy Loman in carne e ossa, privo del filtro della finzione drammaturgica. La sua parlantina un tempo efficace ora si inceppa, le sue battute cadono nel vuoto, il suo sorriso si congela in una maschera di disperazione mentre cerca di piazzare il Libro dei Libri a famiglie operaie cattoliche che a malapena possono permettersi il pane. I Maysles, con la loro celebre tecnica del Direct Cinema – nessuna intervista, nessuna voce fuori campo, solo la macchina da presa come mosca sul muro – non si limitano a registrarne il declino; lo incidono su pellicola con la precisione di un sismografo che rileva il crollo di una civiltà.
La struttura del film è di una semplicità brutale. Seguiamo quattro venditori della Mid-American Bible Company, prima nel gelo del New England e poi sotto il sole opprimente della Florida, a Opa-locka, una terra promessa che si rivelerà un altro girone infernale. Ognuno ha un soprannome che suona come un’insegna al neon sbiadita di un’identità da battaglia: "The Bull", "The Gipper", "The Rabbit" e, appunto, "The Badger". È un bestiario umano che si muove in un paesaggio di interni claustrofobici, salotti ingombri di ninnoli e crocifissi, dove la fede è un’altra merce da negoziare. Qui il film abbandona Miller e si inoltra nei territori di Flannery O’Connor. I personaggi che i venditori incontrano sembrano usciti da un suo racconto: anime semplici, bigotte, sole, la cui devozione diventa il grimaldello per forzare l’acquisto di un prodotto venduto a rate. L’atto di vendere la Bibbia, l’oggetto sacro per eccellenza, si trasforma in un rituale profano, una perversione grottesca in cui il Verbo si fa merce e la salvezza ha il prezzo di 49.95 dollari.
La genialità dei Maysles sta nel catturare la liturgia del capitalismo. Le riunioni di vendita in stanze di motel, guidate da un manager che sembra un predicatore laico, sono messe nere in cui si celebra il dio Dollaro. Si parla di "leads" (contatti), di "chiudere" la vendita, di tecniche psicologiche. Il linguaggio è un codice, un gergo tribale che esclude chi non appartiene al culto. È un mondo che prefigura di vent’anni la spietata arena di Glengarry Glen Ross di David Mamet. Ma dove Mamet costruisce un dramma iper-stilizzato e verboso sulla mascolinità tossica, i Maysles ci mostrano la realtà sgranata e patetica che ne è alla base: non ci sono Cadillac o orologi d’oro in palio, solo la sopravvivenza, la necessità di pagare l’affitto della stanza per un’altra notte.
Visivamente, Salesman è un dipinto di Edward Hopper che prende vita. La fotografia in bianco e nero di Albert Maysles cattura la solitudine esistenziale dell’America di provincia. Le inquadrature dei venditori soli nelle loro stanze, che fissano il vuoto o parlano al telefono con mogli lontane, le luci al neon che si riflettono sulle pozzanghere nei parcheggi, le figure incorniciate dalle porte delle case in cui stanno per entrare o da cui sono appena stati respinti: ogni immagine è un saggio sulla desolazione. C’è una qualità quasi metafisica in questa rappresentazione dell’ambiente, un senso di spazio che è allo stesso tempo vasto (l’America) e soffocante (i salotti, le auto, le camere di motel). Il film non si limita a documentare un mestiere in via d’estinzione; ne astrae l’essenza per parlare di una condizione umana universale: la lotta per mantenere la propria dignità in un sistema che la mercifica costantemente.
La traiettoria di Paul Brennan è il cuore pulsante del film. Lo osserviamo perdere la sua "mojo", il suo tocco magico. Le sue tecniche, un tempo infallibili, diventano goffe. In una scena straziante, cerca di convincere una giovane donna, chiaramente in difficoltà economiche, mentre lei culla il suo bambino. La sua insistenza è quasi crudele, ma dietro di essa non c’è cattiveria, solo la pura e semplice disperazione di chi sta annegando. La macchina da presa non giudica, si limita a testimoniare l’imbarazzo, il silenzio, la sconfitta. Quando finalmente Paul si arrende, la sua uscita di scena non è drammatica, ma silenziosa e terribile. Lo vediamo su un treno, lo sguardo perso fuori dal finestrino, un uomo svuotato, un guscio la cui anima è stata erosa da migliaia di "no", un fantasma che viaggia verso un futuro incerto. È un’immagine finale di una potenza devastante, paragonabile alla chiusura de I 400 colpi di Truffaut, ma senza lo slancio vitale del giovane Antoine Doinel. Qui c’è solo la stasi della fine.
In un certo senso, Salesman è anche un film meta-testuale sulla performance. I venditori non sono semplicemente lavoratori; sono attori che ogni giorno mettono in scena lo stesso copione, adattandolo leggermente al pubblico di turno. La presenza della macchina da presa non fa che aggiungere un ulteriore livello a questa recita. Stanno recitando per i clienti, per i loro colleghi, per il loro capo e, in ultima istanza, per i Maysles e per noi. Ma la maschera, a lungo andare, si crepa, rivelando il volto nudo della fatica e dello sconforto. Il film diventa così una riflessione profonda sulla natura dell'identità nell'America moderna, dove "chi sei" è inestricabilmente legato a "cosa vendi" e "quanto riesci a vendere". Se smetti di vendere, smetti di esistere.
Salesman non è solo un pilastro del documentario americano; è un’opera d’arte totale, un poema epico in tono minore sulla fragilità del sogno. È il contraltare sporco e reale della scintillante retorica di Madison Avenue. È il rumore di fondo della grande narrazione americana, il suono di una porta che si chiude in faccia, ancora e ancora. Ogni volta che un politico tesse le lodi dell'intraprendenza individuale o un guru del marketing promette il successo attraverso il pensiero positivo, le immagini in bianco e nero di Paul Brennan, seduto sul bordo di un letto sfatto in un motel senza nome, riaffiorano come un monito epifanico. Vendere l’anima è facile. Il difficile è calcolare il prezzo quando nessuno è più disposto a comprarla.
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