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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Sfida nell'alta Sierra

1962

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Un uomo può sbagliare strada più volte, ma un'unica volta può perdere la propria anima. Questa lapidaria verità, degna di un moralista seicentesco o di un frammento stoico, pulsa silenziosamente al centro di "Sfida nell'alta Sierra". Non è semplicemente un western, ma un’elegia distillata, un poema in CinemaScope sulla senescenza dell'onore in un mondo che ha già voltato pagina. Sam Peckinpah, qui al suo secondo lungometraggio e non ancora il cantore nichilista e sanguinario de "Il mucchio selvaggio", orchestra una sinfonia crepuscolare che anticipa ogni tema della sua futura, brutale poetica. È un film che si regge su due pilastri, due icone la cui stessa presenza fisica è già una dichiarazione meta-cinematografica: Randolph Scott e Joel McCrea, entrambi prossimi al ritiro, entrambi volti consunti che hanno incarnato per decenni l'archetipo dell'eroe western. Qui, interpretano le rovine ambulanti di quel mito.

La narrazione, nella sua essenza, è di una semplicità quasi biblica: due ex uomini di legge, Steve Judd (McCrea) e Gil Westrum (Scott), si riuniscono per un ultimo lavoro, trasportare un carico d'oro da un campo minerario sperduto tra le montagne. Ma il tempo li ha cambiati in modi divergenti. Judd è un anacronismo vivente, un Don Chisciotte del West la cui rettitudine è diventata una bizzarria, un fardello quasi comico. La sequenza iniziale è un capolavoro di sintesi: lo vediamo in una città irriconoscibile, dove le automobili sfrecciano e un poliziotto lo rimprovera come un vecchio rimbambito per non aver usato le strisce pedonali. È un uomo fuori posto, fuori tempo, la cui vista indebolita (deve usare gli occhiali per leggere il contratto, un dettaglio di vulnerabilità struggente) è metafora di una visione del mondo che non riesce più a mettere a fuoco la modernità. Westrum, al contrario, si è adattato. Ha barattato il codice d'onore per il cinismo, mascherando la sua avidità sotto le spoglie di uno spettacolo da baraccone, un Gil Westrum finto, caricaturale, che si esibisce con il suo giovane protetto Heck Longtree (Ron Starr). È un Sancho Panza che ha perso la fede nel suo cavaliere e ora trama per rubargli la lancia.

Il viaggio attraverso l'Alta Sierra diventa così un pellegrinaggio morale, un percorso ontologico. Peckinpah e lo sceneggiatore N.B. Stone Jr. trasformano il paesaggio da mero sfondo a entità morale. Le montagne di Lucien Ballard, imponenti e indifferenti, sono testimoni silenti del dramma umano, un contrappunto visivo alla piccolezza e alla caducità degli uomini che le attraversano. C'è un'eco quasi panteistica, un richiamo a certi paesaggi romantici di Caspar David Friedrich, dove la natura sublime e terribile schiaccia l'individuo, costringendolo a confrontarsi con la propria finitudine. Il West di Peckinpah non è la Monument Valley di John Ford, un palcoscenico epico per la costruzione della nazione; è un purgatorio, un luogo di prova dove le anime vengono pesate. E in questo purgatorio, ogni incontro è una stazione di una via crucis laica. L'incontro con la giovane Elsa (una Mariette Hartley al suo debutto, straordinaria) e il suo padre bigotto e oppressivo introduce il tema della fuga dalla tirannia patriarcale, un motivo che percorrerà tutto il cinema del regista. La sua ribellione non è un capriccio, ma un grido di vita contro un'autorità religiosa che sa di morte.

La sosta al campo minerario, Coarsegold, è un girone infernale che sembra uscito da un racconto di B. Traven o dalle visioni più cupe di Hieronymus Bosch. Non è una città, ma un coacervo di tende e baracche dove regna la legge della lussuria e dell'avidità. Il matrimonio di Elsa con uno dei fratelli Hammond, una masnada di degenerati che rappresentano la brutalità primordiale del West senza legge, è una delle scene più disturbanti e potenti del cinema di Peckinpah. La cerimonia, officiata da un giudice ubriaco in un bordello, è una profanazione, un'inversione grottesca di ogni sacramento. È qui che le due visioni del mondo, quella di Judd e quella di Westrum, giungono alla collisione finale. Per Judd, salvare Elsa è un imperativo morale, un'eco del vecchio codice cavalleresco. Per Westrum, è un'inutile complicazione che mette a repentaglio il suo piano di rubare l'oro.

Il dialogo tra i due vecchi amici è scarno, essenziale, quasi shakespeariano nella sua densità. Sono uomini che hanno condiviso una vita e che ora si trovano su sponde opposte di un fiume invisibile. Quando Westrum cerca di convincere Judd a tradire la sua etica, appellandosi al pragmatismo ("Il mondo è cambiato, Steve"), la risposta di Judd è il cuore pulsante del film, una delle più belle e significative battute della storia del cinema: "Lo so. Quello che non è cambiato è ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non importa da che parte stai". È la dichiarazione di un uomo che, pur sapendo di essere un fossile, rifiuta di abdicare alla propria integrità. In questa frase risuona l'ostinazione di un Antigone che si oppone alla legge di Creonte, non in nome degli dei, ma in nome di una legge interiore, incrollabile.

Il vero colpo di genio, però, è la scelta di Peckinpah di rendere la redenzione di Westrum non un evento improvviso e melodrammatico, ma un processo lento, quasi riluttante. Vede la nobiltà di Judd, ne è infastidito, la deride, ma alla fine ne viene contagiato. È come se lo spettro del loro passato comune, di ciò che erano un tempo, tornasse a perseguitarlo, costringendolo a fare i conti con l'uomo che è diventato. La decisione di schierarsi con Judd nello scontro a fuoco finale contro i fratelli Hammond non è una conversione sulla via di Damasco, ma l'accettazione stanca e inevitabile della propria vera natura. È il ritorno del figliol prodigo non alla casa del padre, ma alla casa della propria anima.

La sparatoria finale è già puro Peckinpah. Non è un duello elegante e stilizzato, ma una faccenda sporca, goffa e disperata. I personaggi si nascondono, cadono, ansimano. La violenza è improvvisa e definitiva. E poi, la morte di Steve Judd. È una delle più grandi scene di morte della storia del cinema, una catarsi che trascende il genere. Ferito a morte, Judd si siede, guarda le montagne che sono state il teatro della sua vita e della sua ultima prova. Non c'è autocommiserazione, solo una quieta accettazione. Le sue ultime parole a Westrum sono un testamento spirituale: "Non voglio che ti vedano con questo. Io... entrerò nella mia casa da solo". Si riferisce all'oro, ma in realtà parla della sua eredità, della sua anima. L'ultima battuta, "So long, partner", è un addio a un amico, a un'epoca, a un modo di vivere. La cinepresa si solleva leggermente, inquadrando la sua figura che si accascia mentre le vette dell'Alta Sierra, maestose e perenni, lo osservano. Ha finalmente trovato pace, è entrato nella sua casa, "giustificato".

Uscito nel 1962, in un'America che guardava alla Nuova Frontiera di Kennedy, "Sfida nell'alta Sierra" è un film profondamente controcorrente. Mentre la nazione celebrava la giovinezza e il futuro, Peckinpah firmava un'opera sulla vecchiaia, sul rimpianto e sulla fine di un mondo. È un'opera che dialoga idealmente con "L'uomo che uccise Liberty Valance" di John Ford, uscito nello stesso anno, condividendone il tono malinconico e la riflessione sulla morte del mito. Ma se Ford mette in scena la dialettica tra leggenda e realtà, Peckinpah si concentra sulla dimensione interiore, sul conflitto tra integrità e compromesso. È il film che chiude un'era, quella del western classico, e ne apre un'altra, quella del western revisionista, di cui Peckinpah stesso, insieme a Sergio Leone, sarà il sommo sacerdote. È un film su come si invecchia e su come si muore, ma soprattutto, su come si sceglie di vivere l'ultimo, decisivo tratto del cammino. Un capolavoro assoluto, la cui eco risuona ancora oggi, potente e necessaria, ogni volta che un personaggio cinematografico, o una persona reale, si chiede cosa significhi, alla fine di tutto, "entrare nella propria casa giustificati".

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