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Sullivan’s Travel è l’opera in cui Preston Sturges infuse con più passione e impeto la propria arte unitamente ad una visione rielaborata delle vicende umane. Ne nacque un film divertente, profondo e assai godibile. Siamo agli albori degli anni Quaranta, un periodo in cui l'America, pur emergendo dalla Grande Depressione, si preparava a entrare nel turbine della Seconda Guerra Mondiale. In questo clima di incertezza e mutamenti sociali, Sturges, uno degli sceneggiatori-registi più brillanti e unici di Hollywood, realizza un vero e proprio manifesto cinematografico, distillando il suo genio nel fondere la rapidità esilarante della screwball comedy con una riflessione amara e penetrante sulla condizione umana e sul ruolo dell'arte.

La storia è quella di John Lloyd Sullivan, un commediografo di successo che, stanco di sfornare "pellicole divertenti per masse ignoranti" – come le etichetta con una supponenza tipicamente intellettuale –, intende scrivere e dirigere una piéce sugli strati più umili e indigenti della società. Il suo intento è nobile, forse, ma intriso di un paternalismo che il film stesso si incaricherà di smascherare con arguzia. Per farlo si cala nella parte travestendosi da clochard e inizia a peregrinare per la città per raccogliere informazioni, convinto che solo l'esperienza diretta possa conferire autenticità al suo lavoro. Questa premessa, di per sé, è già un topos della satira hollywoodiana: l'artista privilegiato che cerca la "vera vita" tra i reietti, spesso con risultati tragicomici. La sua odissea si trasforma ben presto in una sarabanda di avventure che lo porteranno in prigione, accusato di essere l’assassino di se stesso, un paradosso kafkiano che sottolinea la sua perdita di identità e il crollo di ogni certezza borghese.

Ma la redenzione è lì a due passi: sia personale che artistica. L’uomo troverà infatti l’amore nella figura di una giovane attrice di belle speranze (una magnetica Veronica Lake) che, con il suo cinismo disincantato e la sua schiettezza, si rivela la guida più autentica in questo viaggio iniziatico, e, soprattutto, l’ispirazione drammaturgica. Il film è inebriato da una denuncia sociale soft, con un mezzo sorriso sulle labbra, ma la sua vera forza non risiede tanto nella rappresentazione della povertà – pur efficace e priva di edulcorazioni sentimentali – quanto nella sua audace meta-riflessione sul senso stesso del fare cinema e dell'arte in genere. Più di ogni altra cosa per capire questo film valga questo scambio di battute tra Sullivan e il suo maggiordomo: “Voglio andare per la strada a scoprire cosa significhi essere povera gente: fare un film sulla miseria.” “Se mi è permesso dire, signore, il soggetto non interessa a nessuno. Il povero sa tutto sulla povertà: solo agli intellettuali piacerà l’argomento.” “Ma io voglio farlo per i poveri, non capisci?”.

Questo dialogo non è solo un semplice scambio di battute, ma il cuore pulsante di una diatriba filosofica che attraversa l'intera storia del cinema e dell'arte. Il maggiordomo, con la sua saggezza pragmatica, smonta la presunzione dell'artista che, dal suo pulpito privilegiato, intende "illuminare" chi la miseria la vive quotidianamente. Non è forse l'intellettuale che, in fondo, soddisfa un proprio bisogno narcisistico di "impegno" piuttosto che un'effettiva necessità del pubblico? Sturges qui non condanna l'empatia, ma la vanità che spesso si cela dietro certi slanci "socialmente utili" dell'arte. Il film si pone come un contropunto brillante al populismo a tratti semplicistico di un Frank Capra o alla seriosità di certi drammi sociali coevi, pur senza negare la loro validità intrinseca.

La vera illuminazione per Sullivan arriva, paradossalmente, nel momento più buio, quando si ritrova in prigione, costretto ai lavori forzati. Qui, assistendo a una proiezione di cartoni animati per i detenuti, vede la loro reazione corale: risate fragorose, genuine, liberatorie. In quel coro di allegria dimenticata, Sullivan comprende la profonda verità che il cinema, e l'arte in generale, non devono necessariamente essere veicoli di denuncia o di insegnamento. A volte, il loro scopo più nobile e necessario è semplicemente quello di offrire una via di fuga, un momento di oblio, un barlume di gioia in un'esistenza altrimenti opprimente. La risata diventa un atto di resistenza, una medicina per l'anima. È un messaggio radicale, quasi eretico, in un'epoca che vedeva il nascere di un cinema più "impegnato" e realistico, preludio al neorealismo italiano e ad altre correnti di denuncia. Sturges, invece, con una maestria quasi brechtiana, ci dice che il divertimento non è un'evasione da condannare, ma un'esigenza umana fondamentale, capace di salvare e di unire più di mille prediche.

Sullivan's Travels non è solo una commedia spassosa e un'avventura rocambolesca; è un saggio visivo sulla responsabilità dell'artista, sulla natura illusoria del privilegio e sulla dignità intrinseca di ogni individuo, indipendentemente dalla sua condizione sociale. È un film che, pur parlando di Hollywood e dei suoi vezzi, trascende il suo tempo e il suo contesto per consegnarci una lezione universale sulla potenza catartica dell'umorismo, un inno alla gioia e alla capacità di trovare la luce anche nell'oscurità più profonda. Una pellicola che continua a essere straordinariamente attuale, un promemoria per tutti coloro che pensano che l'arte debba essere sempre e solo specchio fedele di una realtà dolorosa, dimenticando il suo potere più antico e sacro: quello di incantare, di sollevare, di far ridere e, in questo, di salvare.

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