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The Cave - L'ospedale nel bunker

2019

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Il cinema, nella sua forma più pura e necessaria, è una catabasi. Un viaggio verso il basso, una discesa negli inferi personali o collettivi per riportare in superficie un frammento di verità, una scheggia di luce fossile. Pochi film incarnano questa discesa orfica con la stessa brutale onestà di "The Cave" di Feras Fayyad, un'opera che non si limita a documentare l'orrore, ma lo scolpisce con il linguaggio della prossimità fisica e della resistenza spirituale, trasformando la cronaca in un'epica da camera sotterranea. La camera di Fayyad, più che un occhio, è una terminazione nervosa esposta, un sismografo che registra le scosse di un'umanità assediata non solo dalle bombe, ma anche dai propri fantasmi ancestrali.

Ci troviamo nella Ghouta orientale, Siria, durante il culmine di un assedio che ha trasformato la superficie in un paesaggio lunare, in un non-luogo degno di un quadro di Anselm Kiefer. La vita, o ciò che ne rimane, si è ritirata nel sottosuolo. L'ospedale del titolo, soprannominato "The Cave", è letteralmente una tana, un labirinto di corridoi e stanze scavate sotto terra, un ventre precario che tenta di proteggere e guarire mentre il mondo di sopra impazzisce. È un topos cinematografico che conosciamo bene: il bunker, l'ultimo avamposto. Da Das Boot di Petersen, con il suo claustrofobico equipaggio intrappolato in un cilindro d'acciaio sotto la pressione dell'oceano e della guerra, fino all'astronave Nostromo di Alien, un altro dedalo funzionale dove la minaccia è sia esterna che interna. Ma Fayyad sovverte il genere. Qui il mostro non è un'entità aliena o un nemico invisibile; è la modernità stessa nella sua forma più nichilista, la guerra sistematica contro i civili. E gli eroi non sono soldati o avventurieri, ma medici e infermieri armati di bisturi, garze e una speranza quasi geologicamente compressa.

Al centro di questo inferno dantesco, dove ogni girone è una sala operatoria improvvisata o un corridoio affollato di feriti, si erge la figura di Antigone. Il suo nome è Amani Ballour, una giovane pediatra che si ritrova a gestire l'intera struttura. La sua lotta non è solo contro la morte che piove dal cielo, ma anche contro il peso di un patriarcato che, assurdamente, sopravvive persino all'apocalisse. In una scena capitale, agghiacciante nella sua ordinarietà, il marito di una paziente si rifiuta di parlarle perché è una donna, esigendo un responsabile maschio. L'assedio fisico della città trova il suo controcampo nell'assedio culturale e psicologico che la dottoressa Amani deve subire. La sua reazione, un misto di stanchezza, rabbia e determinazione incrollabile, eleva il film da semplice documento di guerra a un trattato universale sulla leadership e sulla resilienza. Come l'eroina di Sofocle, Amani obbedisce a una legge più alta – quella non scritta della cura, dell'imperativo ippocratico – sfidando l'ordine costituito degli uomini e della violenza. La sua non è un'arroganza, ma la lucida affermazione di una competenza che trascende il genere e si ancora all'essenza stessa del dovere umano.

La poetica di Feras Fayyad, già esplorata nel suo precedente e altrettanto devastante Last Men in Aleppo, è quella di un cinéma vérité portato alle sue estreme conseguenze etiche ed estetiche. La sua macchina da presa non è mai un osservatore neutrale; è un testimone partecipe, che trema con le esplosioni, che si sporca di polvere e sangue, che si avvicina ai volti fino a catturarne il respiro. Questa prossimità genera un cortocircuito epistemologico nello spettatore. Non stiamo guardando un reportage; stiamo abitando uno spazio, condividendo un tempo di angoscia e di attesa. La fotografia, spesso sgranata e illuminata da luci al neon o dalla torcia di un cellulare, assume una qualità quasi pittorica, un caravaggismo da fine del mondo dove i corpi straziati emergono da un buio onnipresente. C'è una sacralità laica in queste immagini, come se ogni intervento chirurgico fosse un rito disperato per ricomporre non solo un corpo, ma l'idea stessa di umanità.

Il sonoro è un'architettura fondamentale del film. Fayyad orchestra una sinfonia cacofonica dove il rombo sordo e costante dei bombardamenti funge da basso continuo, una presenza tellurica che ricorda costantemente la precarietà di quel rifugio. Su questa base si innestano i suoni acuti delle apparecchiature mediche, i lamenti dei feriti, le urla dei bambini, gli ordini secchi dei medici. È un paesaggio sonoro che nega ogni possibilità di pace, che penetra sotto la pelle. Eppure, in questo inferno acustico, Fayyad trova momenti di grazia assoluta. La dottoressa Amani, in una rara pausa, ascolta musica classica sul suo smartphone. Un gesto minuscolo, quasi clandestino, che assume la potenza di un atto di sovversione totale. È come il pianista di Polanski che suona Chopin in una Varsavia distrutta; è l'affermazione della cultura sulla barbarie, della struttura armonica sul caos. È il tentativo di ricordare che esiste un altro mondo, un'altra possibilità di esistenza basata sulla bellezza e non sulla distruzione.

"The Cave" pone anche una domanda meta-testuale radicale sul ruolo dell'immagine nel testimoniare l'intestimoniabile. Di fronte a un attacco con armi chimiche, la cinepresa non distoglie lo sguardo. Ci costringe a vedere i corpi dei bambini in preda alle convulsioni, la schiuma alla bocca, la pelle che brucia. È una visione quasi insostenibile, che spinge lo spettatore ai limiti della propria capacità di empatia e di sopportazione. Si potrebbe accusare Fayyad di sfruttamento del dolore, ma sarebbe un'analisi superficiale. Il suo sguardo non è mai voyeuristico; è uno sguardo di accusa, un atto di archiviazione contro l'oblio. In un'epoca di immagini saturate e notizie effimere, Fayyad recupera il peso specifico della singola inquadratura, trasformandola in un documento per un tribunale futuro, che sia quello della storia o quello della nostra coscienza. Le sue immagini non vogliono spiegare la guerra – un'ambizione forse futile – ma mostrare il suo costo in termini di carne, anima e futuro.

Il film non è, e non vuole essere, un'analisi geopolitica. I carnefici rimangono per lo più fuori campo, una forza astratta e impersonale che si manifesta attraverso le sue conseguenze materiali. Questa scelta non è una debolezza o un'omissione, ma una precisa dichiarazione di intenti. Al regista non interessa la "ragione" della guerra, ma la sua irragionevolezza fenomenologica. Concentrandosi sulla sineddoche dell'ospedale, Fayyad crea un'allegoria potente: una società intera costretta a curare all'infinito le ferite che un'altra parte di sé stessa le infligge. È la cronaca di un corpo sociale che si autodivora.

Uscire da "The Cave" non è come uscire da una sala cinematografica. È come riemergere da un'apnea forzata, con la retina ancora impressa di volti e la memoria uditiva infestata di suoni. Non è un film che si "apprezza" nel senso edonistico del termine. È un'esperienza che si subisce, che si assorbe, che ci contamina. È cinema necessario, un pezzo di vita strappato alla morte e proiettato come un monito. Nella grande mappa della settima arte, "The Cave" si colloca in quel territorio impervio e fondamentale abitato da opere come Shoah di Lanzmann o Nuit et Brouillard di Resnais: film che non si limitano a rappresentare la Storia, ma diventano essi stessi un evento, una ferita nella memoria collettiva, un'incisione permanente che ci impedisce di dimenticare cosa succede quando gli esseri umani smettono di vedere altri esseri umani e iniziano a vedere solo bersagli.

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