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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La città perduta

1995

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Se Delicatessen era un vaudeville claustrofobico ambientato in un singolo condominio color seppia, La Città Perduta (La Cité des enfants perdus) è il suo fratello maggiore: un'opera lirica pantagruelica, una sinfonia grottesca inzuppata d'acqua salata, ruggine e del fumo verde dell'oblio. È il momento in cui la diarchia Jeunet & Caro, all'apice della sua simbiosi creativa, ottiene un budget degno della sua immaginazione e lo usa non per creare bellezza, ma per costruire un incubo barocco. Questo non è un film, è un ecosistema. È un mondo tossico e tattile che si attacca alla retina, un'impresa di world-building così totalizzante da far sembrare la trama (un rapimento, una ricerca) un semplice pretesto per un feticismo visivo senza precedenti.

L'estetica del film è una dichiarazione di guerra all'anti-realismo. Jeunet e Caro fondono la poetica del porto delle nebbie di Marcel Carné con la fisicità mutante di Cronenberg, il tutto filtrato attraverso l'ossessione di Terry Gilliam per i tubi e gli ingranaggi. Ma il risultato è unico. È dieselpunk, non steampunk. È un mondo alimentato non dal vapore pulito, ma da un carburante sporco, da un'elettricità che sfrigola e puzza. L'intera città—una piattaforma petrolifera trasformata in Purgatorio, assediata da una nebbia color assenzio—è la vera protagonista. È un labirinto di metallo corroso, legno marcio e vetro opaco, dove ogni oggetto sembra organico e ogni essere umano sembra meccanico. In questo, la collaborazione con Jean Paul Gaultier non è un vezzo: i costumi non vestono i personaggi, li definiscono. Sono esoscheletri che ne rivelano la funzione: i maglioni rozzi dei marinai, le divise quasi-fasciste dei Ciclopi, l'abito da bambola vittoriana di Miette.

Il motore filosofico dell'opera è una delle idee più crudeli e poetiche del cinema anni '90: la tragedia di Krank (un Daniel Emilfork che sembra un quadro di Egon Schiele che ha preso vita). Krank è un esperimento fallito, un clone invecchiato precocemente, un intelletto superiore in un corpo decrepito. La sua tragedia non è la malvagità, ma la sterilità. È l'adulto definitivo: ha la conoscenza, ha il potere, ma ha perso la capacità di sognare. E in un universo che equipara i sogni all'innocenza, Krank è l'inferno. La sua piattaforma è un laboratorio infernale dove, come un Prometeo al contrario, cerca di rubare il fuoco dell'immaginazione ai bambini, ottenendo in cambio solo i loro incubi. Il film diventa così una metafora agghiacciante sull'atto creativo: l'artista sterile (Krank) che cerca di vampirizzare la purezza (i bambini) per alimentare la propria macchina, fallendo miseramente. È l'incubo di un demiurgo impotente.

A questa intelligenza artificiale e senile si oppongono due forme di purezza. La prima è One (Ron Perlman, perfetto nel suo ruolo di "bruto dal cuore d'oro", un archetipo da circo Barnum). One è pura fisicità, un Golem di muscoli e lealtà infantile, mosso solo dall'amore per il fratellino rapito. Non capisce il mondo di Krank, può solo prenderlo a pugni. È il corpo. Ma la vera protagonista è Miette (Judith Vittet), il cervello della resistenza. Lei è l'antitesi di Krank: non è una bambina, è un'adulta in miniatura, una cinica veterana della strada che guida un esercito di piccoli ladri. Eppure, nonostante il suo cinismo, conserva intatta la capacità di sognare, l'innocenza che Krank brama. L'alleanza tra One e Miette è quella tra la forza bruta e l'intelligenza scaltra, uniti contro la perversione della tecnologia e della vecchiaia.

Attorno a loro, Jeunet e Caro scatenano la loro Wunderkammer (camera delle meraviglie) di personaggi grotteschi, un vero e proprio freak show che farebbe impallidire Tod Browning. Ci sono Le Gemelle Siamesi (La Pieuvre), che governano l'orfanotrofio con un misto di avidità e dipendenza reciproca. Ci sono i Cloni (Dominique Pinon, moltiplicato), esseri identici e idioti che servono il loro creatore. C'è il cervello-in-un-barattolo, Irvin, che funge da patriarca disincarnato. Ma la creazione più geniale, e profetica, sono I Ciclopi. Sono un culto transumanista ante-litteram. Sono uomini che hanno rinunciato volontariamente alla vista organica (e quindi alla capacità di sognare, di sentire) in cambio di una visione tecnologica, protesi che permettono loro solo di registrare il reale. Nel 1995, in piena alba dell'era digitale, Jeunet e Caro mettono in scena una critica feroce alla visione mediata, alla nostra ossessione di guardare il mondo attraverso uno schermo (un occhio artificiale) perdendo la capacità di interpretarlo emotivamente.

Tecnicamente, il film è un artefatto cruciale, il ponte tra l'analogico e il digitale. L'ossessione per la "poetica della ruggine" è totale, eppure La Città Perduta è stato un pioniere nell'uso del compositing digitale (all'epoca rivoluzionario, gestito dal Pitof francese) per creare la nebbia, moltiplicare i cloni o animare la pulce ammaestrata. Ma a differenza di molto CGI degli anni '90, qui il digitale serve a potenziare il mondo analogico, a renderlo ancora più denso e soffocante, non a sostituirlo. Il film sembra analogico, puzza di olio e alghe. È un'opera che travolge i sensi, forse persino troppo ricca, troppo densa, un film che rischia di soffocare lo spettatore sotto il peso della sua stessa, meravigliosa inventiva. È l'apice della collaborazione tra i due registi, prima che Jeunet distillasse (e forse sterilizzasse) questa estetica per il consumo di massa con Il favoloso mondo di Amélie. Questa è la versione pura, tossica, e per questo essenziale.

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