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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Fuoco fatuo

1963

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Fuoco Fatuo (Le Feu Follet) è il punto di svolta nella carriera di Louis Malle: è il momento in cui il regista, fino ad allora considerato il "figliol prodigo" più sensuale e lirico della Nouvelle Vague (pensate al jazz di Miles Davis in Ascensore per il patibolo o alla sensualità di Gli amanti), si spoglia di ogni orpello romantico per consegnarci un'opera di una freddezza e onestà assolute. È un film che si muove al ritmo di un'eutanasia spirituale, un Kammerspiel esistenzialista dove la vera prigione non è la clinica di Versailles, ma la vita stessa. È il 1963, la Francia è nel pieno del boom economico e della grandeur gollista, e Malle firma la sua personale, gelida versione de La dolce vita di Fellini, svuotata di ogni grottesco e riempita solo dal silenzio del vuoto.

Il film è un'immersione totale nella soggettività di Alain Leroy, e la performance di Maurice Ronet è una delle più grandi "evaporazioni" della storia del cinema. Non è recitazione; è una sottrazione continua. Ronet, con la sua bellezza stanca, i suoi occhi che hanno già visto tutto e non hanno trovato nulla, non interpreta un uomo che pensa al suicidio; interpreta un uomo che ha già deciso. Il film non è un "perché?" ma un "come?". Trascorriamo 48 ore con un fantasma che sta mettendo in ordine le sue cose. La clinica per alcolisti in cui risiede non è un luogo di cura, ma una sala d'attesa, un limbo bianco e sterile. Il suo alcolismo, capiamo presto, non era la malattia; era il sintomo, un tentativo fallito di "accendere" quel "fuoco fatuo" (il will-o'-the-wisp del titolo) che la vita borghese aveva spento. Ora, sobrio, Alain vede la realtà con una chiarezza insopportabile, e quella chiarezza è la sua condanna a morte.

Louis Malle compie un'operazione chirurgica sul romanzo originale di Pierre Drieu La Rochelle (1931). È un'operazione fondamentale. Malle depoliticizza Drieu. Strappa la storia dal contesto ideologico del suo autore (un intellettuale brillante, decadente e tragicamente compromesso con il fascismo e la collaborazione). Malle non è interessato alla diagnosi generazionale di Drieu sulla decadenza dell'Occidente; è interessato alla condizione esistenziale universale. Trasforma un pamphlet nichilista degli anni '30 in un poema sartriano degli anni '60. E lo fa attraverso un'arma sonora: la musica di Erik Satie. Le Gymnopédies e le Gnossiennes non sono una colonna sonora; sono il respiro meccanico del film. È una musica bellissima, minimalista, ma circolare. Non ha sviluppo, non ha catarsi. Si ripete, come i pensieri di Alain, come i suoi rituali (guardarsi allo specchio, toccare gli oggetti), intrappolandolo in un eterno presente senza scopo. È il suono dell'acqua che gocciola in un lavandino vuoto.

Il cuore del film è l'uscita di Alain dalla clinica. Si concede un'ultima giornata a Parigi, non per trovare una ragione per vivere, ma per confermare che non ce n'è nessuna. È un'Odissea al contrario, un viaggio non verso casa, ma verso il nulla. Ogni incontro è una stazione della sua Via Crucis laica, e ogni stazione è un fallimento. La Parigi di Malle, fotografata da un Ghislain Cloquet che la rende grigia, indifferente e spettrale, non è la città dell'amore; è un cimitero di connessioni mancate. Gli incontri di Alain sono la vera anatomia del suo fallimento. C'è l'amico Dubourg (Bernard Noel), l'ex compagno di bevute ora convertito alla vita borghese: famiglia, figli, soldi, un lavoro noioso. Per Alain, Dubourg non è "salvo"; è semplicemente morto in un altro modo. È l'incarnazione della vita come accumulo, un orrore che Alain rifiuta. La loro conversazione a pranzo è un dialogo tra sordi, un uomo che parla di "responsabilità" a un uomo che non sente più nulla.

Poi ci sono gli altri, gli amici bohémien, i ribelli. Ma la loro ribellione è altrettanto vuota. Sono immersi nella droga, nell'arte performativa sterile, in discorsi intellettuali che girano a vuoto. Sono l'altra faccia della medaglia di Dubourg: se lui è l'anestesia borghese, loro sono l'anestesia narcotica. Nessuno vede veramente Alain. Lo usano come uno specchio per i loro drammi. Anche le donne, come l'amica americana Solange (Alexandra Stewart) o l'ex amante Lydia, offrono solo nostalgia, il fantasma di un passato che non può più scaldarlo. Alain è l'uomo più solo di Parigi perché è l'unico che ha smesso di mentire a se stesso. È circondato da persone che fanno finta di vivere, mentre lui è l'unico onesto, pronto ad ammettere la sconfitta. In questo, Fuoco Fatuo è il gemello francese de La Notte di Antonioni, e Alain Leroy è il Marcello Mastroianni di Malle, ma senza più la distrazione della lussuria, rimasto solo con l'ennui allo stato puro.

La regia di Malle è di una precisione terrificante. La sua macchina da presa si sofferma sugli oggetti con un'insistenza quasi feticista: il bicchiere d'acqua, la valigia, la pistola nella valigia, la pagina del libro, l'interruttore della luce. Sono gli unici appigli reali in un mondo di astrazioni fallite. Alain si aggrappa a questi oggetti, li tocca, li ordina, perché sono gli unici a non mentire. Sono gli strumenti del suo ultimo atto. Il suicidio, per Alain, non è un atto di disperazione; è l'ultimo, disperato atto di controllo. Dopo una vita passata a "lasciarsi vivere" (dall'alcol, dalle donne, dai soldi altrui), la morte è l'unica cosa che può fare attivamente. Il finale, quando la musica di Satie si ferma e il rumore della realtà (un clacson, la vita che continua fuori) penetra brevemente nella stanza, è agghiacciante. Il "fuoco fatuo" non era la passione per la vita; era solo l'ultimo, breve cortocircuito della coscienza prima dello spegnimento. Un capolavoro gelido, perfetto e necessario.

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