The Fog of War - La guerra secondo Robert McNamara
2003
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Regista
Lo sguardo di Robert S. McNamara, per tutta la durata di The Fog of War, è un enigma inscritto nel cuore del potere novecentesco. Non è un’intervista quella che Errol Morris orchestra, ma un’autopsia dell'anima, una seduta spiritica in cui l'evocato è il fantasma della Ragione stessa, quella Ragione illuminista che credeva di poter misurare, quantificare e infine dominare il caos della storia. Attraverso l'Interrotron, la diabolica invenzione di Morris che permette al soggetto di guardare simultaneamente l'intervistatore e la camera, McNamara non parla a noi: ci fissa. E in quello sguardo diretto, quasi una violazione dell'intimità spettatoriale, si consuma il dramma di un uomo che è al contempo Edipo e la Sfinge, colui che ha risolto gli enigmi della logistica bellica ma è rimasto cieco di fronte alla propria, catastrofica ubris.
Il film si presenta, con un’eleganza quasi didascalica, come una successione di undici lezioni tratte dalla vita del suo protagonista. Ma questa struttura, che potrebbe apparire come un tentativo di auto-assoluzione, un manuale testamentario, viene costantemente sabotata dall'apparato estetico di Morris. La partitura ipnotica e ciclica di Philip Glass non suona come un commento, ma come il ronzio inesorabile della macchina burocratica, un metronomo che scandisce il ritmo della produzione, che sia di automobili Ford o di cadaveri. Le immagini di repertorio – bombardieri B-29 che sciamano come insetti metallici, grafici che si sovrappongono a città in fiamme, volti anonimi di un nemico lontano – creano una dissonanza lancinante con la pacatezza quasi professorale di McNamara. È il linguaggio visivo della "banalità del male" di Hannah Arendt, trasposto in un formalismo cinematografico che gela il sangue. L'orrore non è nell'urlo, ma nel foglio di calcolo.
McNamara è l'eroe tragico dell'era tecnocratica. Un Prometeo che non ha rubato il fuoco agli dèi, ma la statistica. La sua carriera, da astro nascente della Harvard Business School a demiurgo della Ford Motor Company fino a Segretario della Difesa sotto Kennedy e Johnson, è la parabola dell'efficienza come valore supremo. In un passaggio agghiacciante, ricorda come applicò l'analisi dei dati per massimizzare la letalità dei bombardamenti incendiari su Tokyo, raggiungendo un'efficienza distruttiva superiore a quella di Hiroshima. Non c'è compiacimento nella sua voce, ma neppure rimorso; c'è la fredda soddisfazione del problema risolto. È qui che il film trascende il documentario storico per diventare un'opera filosofica. Ci costringe a interrogarci sulla natura esiziale di una razionalità priva di empatia, un'intelligenza che, come il Dottor Stranamore di Kubrick, si innamora della propria logica fino al punto di contemplare l'annientamento. The Fog of War è il gemello oscuro e terribilmente reale di Dr. Strangelove. Laddove Kubrick usava la satira per esporre l'assurdità della distruzione mutua assicurata, Morris usa il primo piano per rivelare il volto umano, composto e tormentato, di quella stessa assurdità.
Il parallelismo più profondo, tuttavia, non è con Kubrick, ma forse con Kurosawa. The Fog of War è un Rashomon con un unico testimone. Siamo intrappolati nella sua versione dei fatti, nel suo tentativo di ordinare il caos del passato attraverso una narrazione coerente. Ma la verità, come la nebbia del titolo, è impalpabile. Quando parla della Crisi dei missili di Cuba, descrive un mondo sull'orlo del baratro, salvato da un sottile filo di razionalità e fortuna. Eppure, anche lì, la sua lezione è ambigua: "La razionalità non ci salverà". È una confessione o un'alibi? Morris, da maestro della maieutica cinematografica, non offre risposte. Lascia che le contraddizioni di McNamara vibrino nell'aria: l'uomo che ammette di aver agito come un criminale di guerra per i bombardamenti sul Giappone è lo stesso che ha poi supervisionato la carneficina del Vietnam. L'architetto della guerra più impopolare d'America è lo stesso che sussurra, con la voce incrinata, che il principale dovere di un leader è tenere la propria nazione fuori dalla guerra.
Il Vietnam è il cuore di tenebra del film, il punto di collasso della logica di McNamara. La "teoria del domino" diventa la sua Balena Bianca, un'ossessione astratta inseguita con una furia calcolata che trascina un'intera nazione nell'abisso. Il film mostra magistralmente come la nebbia della guerra non sia solo la mancanza di informazioni sul campo di battaglia, ma una condizione esistenziale e cognitiva. È la nebbia che avvolge la mente di chi crede che una cultura possa essere ridotta a una variabile in un'equazione, che la volontà di un popolo possa essere spezzata da un calcolo di "body count". È la nebbia che separa il War Room di Washington, con le sue mappe e i suoi telefoni, dalla giungla umida e impenetrabile dove le certezze della statistica si dissolvono nel fango e nel sangue.
In questo, l'opera di Morris si rivela profondamente meta-testuale. Il film non è solo su McNamara; è costruito come la mente di McNamara. È preciso, strutturato, analitico in superficie, ma sotto ribolle di dubbi inespressi, di traumi rimossi, di un dolore che si manifesta solo in un tremito della voce, in una pausa troppo lunga. La scena finale è emblematica. Dopo due ore di confessione-lezione, McNamara è sul punto di cedere. Le lacrime sembrano affiorare mentre contempla l'enormità delle decisioni prese. Ma non cadono. Si ritrae, si ricompone, torna ad essere il manager del proprio tormento. Il film non gli concede la catarsi, e negandola a lui la nega anche a noi. Non c'è facile condanna né assoluzione a buon mercato. Restiamo con l'immagine di un uomo che ha guardato nell'abisso della storia armato solo di un regolo calcolatore, e che passerà l'eternità a ricalcolare i propri errori, senza mai ammetterli del tutto. The Fog of War non è un pezzo di storia. È un artefatto culturale senza tempo, un ritratto spietato e compassionevole dell'homo faber del XX secolo, perso nella nebbia che lui stesso ha contribuito a creare. Un capolavoro la cui visione non è semplicemente consigliata, ma necessaria.
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