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I Racconti della Luna Pallida d'Agosto

1953

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Mizoguchi, indimenticato Maestro giapponese di un cinema levigato e intimista, concepisce quest’opera dopo la lettura dei racconti surreali di Ueda Akinari, su cui basa la poetica dell’opera e da cui nasce il suggestivo (e un tempo considerato spregiudicato) titolo della distribuzione italiana. Laddove l'originale Ugetsu Monogatari si traduce più letteralmente in "Racconti della pioggia e della luna", l'elegia della "Luna Pallida d'Agosto" evoca una malinconia eterea che permea ogni fotogramma, anticipando il connubio di bellezza e disillusione che caratterizza il film. La mano di Mizoguchi si rivela qui in tutta la sua sublime maestria, manifestando quel distintivo approccio "one-scene-one-shot" (pur non sempre rigidamente applicato, ma come filosofia guida) che gli permetteva di esplorare gli spazi e le relazioni umane con una fluidità e una profondità psicologica raramente eguagliate. La sua macchina da presa, spesso distante, fluttua come uno spirito silente, osservando con compassione e distacco le tragedie che si consumano, creando un'atmosfera sospesa tra il sogno e la veglia, tra il tangibile e l'ultraterreno.

Il film è imperniato sulla storia di due umili uomini di un piccolo villaggio nel Giappone del sedicesimo secolo, un'epoca – il Sengoku Jidai – sconvolta da una guerra civile che disgrega l'ordine sociale, riducendo le vite a mere pedine su una scacchiera di ambizione e violenza. I due, spinti da una cieca hybris, abbandonano le rispettive famiglie e partono in cerca di fortuna per ambire all’agognato status di Samurai, simbolo di potere e prestigio in un mondo in cui la meritocrazia di spada sembra l'unica via per l'ascesa sociale. La loro epopea, intrisa di desiderio e presunzione, sarà cagione di lutti e disperazione, e la rovina si abbatterà inesorabilmente sulle famiglie lasciate in balia degli eventi, esposte alle brutalità di un conflitto che non fa prigionieri né distingue innocenti.

Presentato con un taglio inquietante che sfuma i confini tra realismo crudo e onirica suggestione, narra vicende strazianti. Questo film è una favola sovrannaturale sulla follia degli uomini con sogni più grandi di loro e le loro donne che soffrono di conseguenza questa smania di grandezza. È un'acuta riflessione sulla vanità delle ambizioni terrene e sulla fragilità dell'esistenza umana di fronte alla tracotanza del destino e alle pulsioni autodistruttive dell'individuo. Genjuro (Masayuki Mori), un vasaio il cui talento lo porta a desiderare la ricchezza e il lusso, e Tobei (Sakae Ozawa), un contadino animato dal sogno di elevarsi allo status di samurai, entrambi ignorano la propria famiglia, emblema di quella sicurezza domestica e di quegli affetti che, nella cultura giapponese, dovrebbero essere il centro della vita.

Anche se una guerra infuria intorno a loro, con la sua ineluttabile minaccia di violenza e morte, si avventurano in città per vendere i loro prodotti, illudendosi di poter sfuggire alla propria condizione e di plasmare un futuro migliore. Ma il destino ha in serbo un'amara lezione. Genjuro viene stregato da un bellissimo e al contempo vendicativo fantasma (Lady Wakasa, interpretata dalla magnetica Machiko Kyo, che porta in scena una presenza eterea e inquietante al tempo stesso), personificazione di un desiderio irrealizzato e di un inganno fatale. La sua relazione con lo spirito, sublime e terrificante, lo trascina in un abisso di illusione mentre la sua stessa moglie, Miyagi, viene tragicamente uccisa da un soldato, vittima innocente della crudeltà del tempo e della negligenza del marito. Parallelamente, Tobei diventa un celebre guerriero, assaporando per un breve istante l'ebbrezza della gloria, ma il suo successo effimero si costruisce sulla rovina più profonda: la sua amata moglie, Ohama, scende a prostituirsi dopo essere stata violentata durante la disperata ricerca di suo marito.

Attraverso queste due parabole interconnesse, Mizoguchi non solo esplora la futilità della guerra e l'illusorietà del potere, ma tesse anche un elogio commovente della resilienza femminile. Le donne di Ugetsu – Miyagi con la sua incrollabile devozione e Ohama con la sua straziante caduta e rinascita – emergono come le vere colonne portanti di un mondo in rovina, testimoni silenziose e vittime predestinate della follia maschile. Il regista, noto per la sua empatia verso le figure femminili, le eleva a simboli di purezza e sacrificio, riallacciandosi a temi cari alla sua filmografia come in La vita di Oharu, cortigiana o L'intendente Sansho, dove il dramma delle donne è sempre al centro della narrazione, rappresentato con una dignità e una sofferenza che travalicano il mero racconto.

L'impiego magistrale della fotografia di Kazuo Miyagawa, capace di dipingere paesaggi nebbiosi e inquietanti che riflettono lo stato d'animo dei personaggi, eleva il film a un'esperienza visiva trascendente. Le sequenze, come quella sul lago nebbioso o l'incontro con Lady Wakasa nel suo palazzo etereo, sono pura poesia cinematografica, richiamando l'estetica del teatro Noh e la pittura Sumi-e. La bellezza formale del film non è mai fine a se stessa, ma serve a intensificare il dramma, a rendere palpabile l'invisibile, a far risuonare il lamento dei fantasmi e l'eco della distruzione.

Premiato con il Leone d'Argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1953, I Racconti della Luna Pallida d'Agosto non è solo un capolavoro del cinema giapponese dell'età d'oro, ma un'opera marmorea nel suo possente spirito epico che non manca di commuovere ed appassionare. È un autentico cardine del Cinema di ogni tempo, una meditazione profonda sulla condizione umana, sull'ambizione e sul rimpianto, che continua a risuonare con una forza disarmante, un'eco immortale di bellezza e tragedia.

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