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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Un borghese piccolo piccolo

1977

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Un film può essere una crepa, una faglia che si apre nel paesaggio familiare di un genere cinematografico per rivelare l’abisso che si nasconde sotto la superficie. “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli non è semplicemente un film; è una vivisezione, un atto di terrorismo semiotico contro la Commedia all’italiana che lo stesso Monicelli aveva contribuito a edificare. La pellicola si spezza in due con la precisione di un osso fratturato, e in quella frattura scomposta risiede non solo la sua grandezza, ma anche la sua spietata, eterna verità sull'Italia e sulla natura umana. La prima metà del film è un trattato di antropologia grottesca, un’immersione in apnea nella melma morale e nelle aspirazioni asfittiche della piccola borghesia romana degli anni Settanta. Giovanni Vivaldi, incarnato da un Alberto Sordi che compie una vera e propria catabasi attoriale, è la maschera definitiva dell’italiano medio. Non è il cialtrone vitale e seduttore, né l’opportunista dal cuore d’oro. È un uomo svuotato, la cui intera esistenza è compressa in un unico, ossessivo obiettivo: la sistemazione del figlio Mario, un ragioniere mediocre e bamboccione, attraverso il mitologico “posto fisso”.

In questo prologo farsesco, Monicelli orchestra una sinfonia della meschinità. L'ufficio ministeriale dove lavora Vivaldi è un girone dantesco popolato da anime grigie, un microcosmo kafkiano dove la burocrazia non è solo un sistema, ma una metafisica. La ricerca della “spintarella”, del favore, della scorciatoia, culmina nell'adesione alla massoneria, rappresentata non come un potere occulto e terribile, ma come un club per anziani ridicolo e patetico, un altro ingranaggio nel meccanismo del clientelismo nazionale. Sordi è magistrale nel dipingere questo ometto la cui deferenza verso il potere è direttamente proporzionale alla sua protervia verso i subalterni. Ogni suo gesto, ogni sorriso servile, ogni frase untuosa è un capolavoro di mimesi sociologica. Si muove in un mondo che sembra uscito da un romanzo di Vincenzo Cerami (autore del libro da cui il film è tratto), un universo verista deformato da una lente espressionista, dove la lotta per la sopravvivenza non è quella dei pescatori di Verga, ma quella, infinitamente più squallida, per un posto da usciere.

Poi, uno sparo. Un proiettile vagante durante una rapina. E il film muore. O meglio, rinasce come qualcos'altro. La morte di Mario Vivaldi non è solo il punto di svolta narrativo; è un collasso strutturale, un evento di estinzione che annienta il codice genetico della commedia. Il suono di quello sparo è l'eco della realtà che irrompe nella finzione, il rumore di fondo degli Anni di Piombo – del terrorismo, della violenza di strada, dell'insicurezza esistenziale – che squarcia il velo della satira. Monicelli, con un coraggio registico quasi senza precedenti, non attenua il colpo. Anzi, lo amplifica con un silenzio assordante. La seconda parte del film è un'opera quasi muta, un requiem dove le parole lasciano il posto ai gesti, agli sguardi, al rumore dei passi di un uomo che è diventato un fantasma.

La metamorfosi di Giovanni Vivaldi è una delle più agghiaccianti della storia del cinema, un processo che fa impallidire molte trasformazioni da Dottor Jekyll a Mister Hyde. Non c’è nessuna pozione, nessuna mutazione fisica. C'è solo lo svuotamento. Sordi si spoglia di ogni tic, di ogni inflessione comica, e diventa una maschera di pura, glaciale determinazione. Il suo dolore non è catartico, non è espressivo; è implosivo, un buco nero che assorbe ogni luce. Inizia così la sua caccia all'uomo, una discesa nell'inferno che non ha nulla dell'epica del giustiziere. Se “Il giustiziere della notte” di Michael Winner, uscito pochi anni prima, era un'apologia reazionaria e catartica della vendetta individuale, “Un borghese piccolo piccolo” ne è la negazione dialettica. Vivaldi non diventa un eroe d'azione. Diventa un mostro burocratico. Applica alla tortura e all'omicidio la stessa meticolosa, pedante e grigia diligenza che applicava alle sue pratiche ministeriali. La sua vendetta è un lavoro d'ufficio, un compito da sbrigare con ordine e senza emozione.

In questo, il film raggiunge vette di analisi filosofica che lo proiettano ben oltre il cinema di genere. Vivaldi diventa l'incarnazione della "banalità del male" di Hannah Arendt. Il suo male non è satanico o grandioso; è piccolo, borghese, appunto. È il male di un uomo qualunque a cui è stato tolto l'unico, misero puntello della sua esistenza e che scopre dentro di sé un vuoto che può essere riempito solo da una violenza fredda e calcolata. La sequenza del sequestro e della tortura del giovane rapinatore è girata da Monicelli con una distanza chirurgica che ne amplifica l'orrore. Non c’è compiacimento, non c’è spettacolarizzazione. C'è solo la cronaca di un metodico smantellamento fisico e psicologico, in un casolare di campagna che diventa un laboratorio dell'orrore suburbano. È qui che il film dialoga segretamente non tanto con il thriller, quanto con certe atmosfere di Dostoevskij, con l'esplorazione della capacità umana di trascendere ogni limite morale una volta che la struttura sociale e divina viene a mancare.

Meta-testualmente, il film è l'autopsia della Commedia all'italiana. Monicelli e Sordi prendono l'archetipo che hanno contribuito a creare – l'italiano medio, con le sue furbizie e le sue debolezze, su cui si rideva con un misto di affetto e disprezzo – e lo spingono oltre il punto di rottura, per vedere cosa succede. E ciò che succede è l'orrore. Scoprono che sotto la maschera comica non c'è un cuore buono, ma un potenziale mostro la cui mediocrità può facilmente trasformarsi in ferocia. L'amoralità che nella prima parte era funzionale alla "sistemazione" del figlio diventa, nella seconda, funzionale alla sua vendetta. Il fine è cambiato, ma il meccanismo psicologico è identico. Vivaldi non è un uomo buono che diventa cattivo; è un uomo vuoto la cui bussola morale ha sempre puntato verso il proprio, misero interesse, e che, una volta perso l'oggetto di quell'interesse, si ritrova a vagare in un deserto etico.

Il finale è una pugnalata allo stomaco. Dopo aver compiuto la sua vendetta, Vivaldi torna in ufficio. Ha ottenuto una promozione. Guarda fuori dalla finestra, verso un futuro che è di nuovo scandito dalla routine ministeriale. E sul suo volto, per la prima volta dalla morte del figlio, affiora un impercettibile, agghiacciante accenno di sorriso. Non è un sorriso di sollievo o di gioia. È il sorriso di chi ha trovato un nuovo ordine, di chi ha scoperto che il meccanismo del mondo, in fondo, non è così diverso dal suo. È un'immagine che si conficca nella memoria, potente e ambigua come il finale di “Taxi Driver” di Scorsese, un altro capolavoro coevo sulla disintegrazione urbana e psicologica. Ma se Travis Bickle è un alienato che esplode, Giovanni Vivaldi è un integrato che implode, riassorbendo la violenza nel sistema che l'ha generato. È il trionfo del mostro normale, dell'uomo qualunque che ha guardato nell'abisso e ha scoperto che l'abisso gli somiglia. Un capolavoro assoluto, una lacerazione nel tessuto del cinema italiano da cui, forse, non ci siamo mai veramente ripresi.

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