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Urla del silenzio

1984

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Un film può spaccarsi in due, come un’anima, come una nazione. Urla del silenzio di Roland Joffé non è un’opera monolitica, ma un dittico crudele e necessario la cui cerniera è uno degli eventi più traumatici del XX secolo: la caduta di Phnom Penh nell'aprile del 1975. Prima di quel momento, il film è un thriller politico-giornalistico dal sapore squisitamente anni Settanta, un cugino esotico e sudato di Tutti gli uomini del presidente, immerso nel caos controllato dei corrispondenti di guerra che inseguono lo scoop mentre un paese collassa su se stesso. Dopo, si trasforma in un'odissea di sopravvivenza che abbandona il linguaggio del cinema-verità per abbracciare quello del mito, del viaggio agli inferi, una vera e propria catabasi dantesca nell'anno zero della storia cambogiana.

Nella prima parte, Joffé, al suo esordio cinematografico con una maturità sbalorditiva, ci lancia nel mezzo dell'azione. La macchina da presa di Chris Menges (che per questo lavoro si aggiudicò un meritatissimo Oscar) non è un occhio passivo; è un partecipante febbrile. Si attacca ai suoi protagonisti, il giornalista del New York Times Sydney Schanberg (un Sam Waterston teso, ambizioso, quasi febbrile nella sua ricerca della "verità") e il suo interprete e assistente locale, Dith Pran (Haing S. Ngor), con un'intimità quasi documentaristica. Sentiamo il caldo umido, la polvere, la paura e l'adrenalina che scorrono nelle vene di questi uomini. La loro amicizia, nata sul campo, è il cuore pulsante del racconto: un legame forgiato non solo sulla necessità professionale, ma su un rispetto e un affetto reciproci che trascendono le barriere culturali. Accanto a loro, un giovane e già magnetico John Malkovich nei panni del fotografo Al Rockoff aggiunge un tocco di cinico idealismo, l'archetipo del testimone che usa l'obiettivo come scudo contro l'orrore. Questa sezione del film è un capolavoro di tensione e di messa in scena, un'immersione totale in un mondo sull'orlo del baratro, dove il ticchettio dell'orologio non segna le ore, ma l'avvicinarsi inesorabile dei Khmer Rossi.

Poi, l'apocalisse. La presa di Phnom Penh. L'ambasciata francese diventa un limbo soffocante, un microcosmo della disperazione e del tradimento. È qui che avviene la frattura. Schanberg, cittadino americano, può andarsene. Pran, cambogiano, no. La scelta di Schanberg di insistere perché Pran rimanga, spinto dall'ambizione professionale mascherata da lealtà, diventa il peccato originale del film, il fardello che lo tormenterà per gli anni a venire. La separazione dei due amici è lo spartiacque narrativo ed emotivo che proietta il film in una dimensione completamente diversa. Da questo momento, le due storie corrono su binari paralleli ma diametralmente opposti. Schanberg torna a New York, riceve il Premio Pulitzer per i suoi reportage (grazie soprattutto al lavoro di Pran) e sprofonda in un purgatorio di sensi di colpa e impotenza. La sua è una lotta interiore, condotta nel comfort del mondo occidentale, una battaglia contro i fantasmi e contro la frustrazione di non poter fare nulla per l'amico abbandonato nell'abisso.

L'altra storia, quella di Pran, è invece una discesa fisica e spirituale nell'inferno. Joffé abbandona il realismo adrenalinico per un'estetica più contemplativa e allucinata. Il paesaggio cambogiano, sotto il regime di Pol Pot, diventa un girone infernale dove la ragione è abolita, la cultura sradicata e l'umanità stessa messa in discussione. I campi di rieducazione, la propaganda martellante, la fame, la violenza arbitraria: il film non indietreggia, ma sceglie di non indulgere mai nel voyeurismo. La violenza più atroce è spesso suggerita, lasciata fuori campo, resa ancora più potente dal silenzio che la circonda. Il titolo italiano, Urla del silenzio, coglie forse meglio dell'originale (The Killing Fields) questa dimensione. L'urlo di Pran non è sonoro, ma interiore, un grido muto di fronte all'annientamento di un popolo. È qui che la performance di Haing S. Ngor trascende la recitazione per diventare testimonianza. Ngor, medico cambogiano sopravvissuto egli stesso ai campi di sterminio, non sta interpretando un ruolo; sta rivivendo il proprio trauma, infondendo in ogni sguardo, in ogni gesto, un'autenticità che spezza il cuore e gela il sangue. Il suo Oscar come miglior attore non protagonista è uno dei più giusti e meta-testualmente potenti nella storia dell'Academy. La sua non è arte dell'imitazione, ma della rievocazione.

La sequenza più celebre, quella in cui Pran emerge barcollando da un'ansa del fiume per trovarsi di fronte a un campo sterminato di teschi e ossa umane, è un momento di cinema puro, un'epifania macabra che raggiunge un livello di astrazione quasi pittorica. È un'immagine che si imprime nella retina, una sineddoche visiva di un intero genocidio, un'estetica che ricorda i "Disastri della guerra" di Goya trasposti nel sud-est asiatico. In questo frangente, la scelta apparentemente bizzarra della colonna sonora di Mike Oldfield rivela tutta la sua geniale efficacia. Le sue partiture elettroniche, con brani come l'indimenticabile "Étude", creano un contrappunto straniante e anacronistico. Invece di sottolineare l'orrore con musiche drammatiche e convenzionali, Oldfield lo eleva a una dimensione quasi metafisica, trasformando la sofferenza di un uomo e di un popolo in un lamento universale, senza tempo. È un rischio enorme, che avrebbe potuto facilmente fallire, ma che nelle mani di Joffé diventa una delle cifre stilistiche più coraggiose e memorabili del cinema degli anni '80.

A differenza di altri film sul "cuore di tenebra" conradiano della guerra in Indocina, come l'operistico e psichedelico Apocalypse Now di Coppola, Urla del silenzio rimane ancorato a un'etica profondamente umanista. Non cerca di spiegare l'ideologia folle dei Khmer Rossi né di psicanalizzare la natura del male. Il suo focus è più intimo e, per questo, forse ancora più devastante. È un film sulla fragilità e sulla resilienza dello spirito umano, sull'amicizia come ultimo baluardo contro la barbarie, e sul ruolo del testimone. Pone una domanda fondamentale e scomoda: qual è la responsabilità di chi guarda e racconta? È sufficiente documentare l'orrore per assolverci? La colpa di Schanberg è la colpa di tutto l'Occidente, che ha osservato, scritto, e poi si è voltato dall'altra parte.

Il ricongiungimento finale, con la sua disarmante semplicità, è catartico. La domanda di Schanberg, "Mi perdoni?", e la risposta di Pran, "Niente da perdonare, Sydney. Niente", chiudono il cerchio non con una facile assoluzione, ma con il riconoscimento di una verità più grande: la sopravvivenza stessa è una forma di perdono, la capacità di andare avanti è l'unica vittoria possibile contro chi ha cercato di cancellare tutto. Urla del silenzio non è semplicemente un film storico o un film di guerra. È un monumento cinematografico alla memoria, un'opera che usa il linguaggio del cinema per dare voce a milioni di silenzi, trasformando un capitolo oscuro della storia in un racconto universale sul costo della testimonianza e sull'indistruttibile potere dei legami umani.

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