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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Vortex

2021

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La scissione dello sguardo è l'atto di nascita di questo film. Non un vezzo stilistico, non un gimmick da esibire come un feticcio post-moderno, ma il fondamento ontologico di un'opera che sceglie di guardare l'abisso non frontalmente, ma attraverso il prisma infranto di due coscienze alla deriva. Gaspar Noé, il nostro enfant terrible di fiducia, l'officiante di riti cinematografici al neon e allo stroboscopio, depone le armi della provocazione esplicita per imbracciare quelle, ben più affilate e crudeli, della fenomenologia. Vortex è un diptico in movimento, un contrappunto visivo incessante che racconta la solitudine ultima: quella che si consuma a pochi centimetri di distanza da un'altra vita, all'interno dello stesso letto, tra le stesse mura che un tempo definivano uno spazio condiviso e ora cingono due universi paralleli e inesorabilmente divergenti.

Lo split-screen, qui, non è il Polyvision tentato da Abel Gance nel suo Napoléon, né l'espediente adrenalinico di un Brian De Palma. È qualcosa di più vicino a un esperimento di fisica quantistica applicato al dramma umano: due particelle, un tempo intrecciate in un unico sistema (la coppia, l'amore, una vita di intelletto e passione), che ora, osservate, rivelano la loro natura irriducibilmente singola. Da una parte dello schermo, Lui (Dario Argento), un critico cinematografico che tenta disperatamente di aggrapparsi all'ordine della scrittura, alla logica di un saggio sul cinema e i sogni, mentre il mondo intorno a lui frana. Dall'altra, Lei (Françoise Lebrun), ex psichiatra la cui mente, un tempo strumento di analisi dell'altrui psiche, è diventata un labirinto senza uscita, un groviglio di memorie sfilacciate e impulsi afasici. Le due camere, spesso indipendenti, seguono i loro percorsi claudicanti all'interno dell'appartamento parigino che è sineddoche della loro esistenza: un archivio straripante di libri, poster, pellicole, un mausoleo di una cultura che si dimostra impotente di fronte al collasso biologico.

La scelta del cast è un colpo di genio meta-testuale che eleva Vortex da cronaca di un declino a riflessione terminale sulla memoria del cinema stesso. Avere Dario Argento, il demiurgo dell'omicidio barocco, il coreografo della morte estetizzata, nel ruolo di un uomo fragile che affronta la fine più banale, più spogliata di ogni formalismo, è di una crudeltà sublime. Argento, che ha costruito carriere sull'uccisione di giovani corpi, è qui un corpo anziano che si spegne, la cui massima angoscia non è un rasoio che balugina nel buio, ma una ricetta smarrita o un rubinetto che perde. Le pareti del suo studio, tappezzate di locandine di Vampyr e Nosferatu, non sono semplici arredi, ma fantasmi di un immaginario potente, ora ridotti a carta da parati di una cella esistenziale. Il maestro dell'orrore artificiale è inghiottito dall'orrore naturale, senza scampo e senza musica dei Goblin a scandirne il ritmo.

E poi c'è Françoise Lebrun. Chiunque abbia nel proprio pantheon personale La maman et la putain di Jean Eustache non può che provare un brivido freddo lungo la schiena. La Veronika di quel film era un fiume in piena di parole, un'incarnazione della logorrea esistenziale della post-Nouvelle Vague, capace di dissezionare l'amore e il desiderio in monologhi torrenziali. La donna che Lebrun interpreta in Vortex è il suo negativo spettrale. La parola le è stata sottratta, il linguaggio è imploso, lasciando solo gesti spezzati, sguardi persi, un vagare senza meta tra gli oggetti che hanno perso il loro nome e la loro funzione. È la tragedia di un intelletto che si dissolve, un contrappasso terribile che chiude un cerchio lungo cinquant'anni di storia del cinema francese. Noé non si limita a dirigere due attori, ma orchestra due icone, due fantasmi culturali, facendoli recitare la loro stessa mortalità. La loro performance, in gran parte improvvisata, raggiunge un grado di verosimiglianza che trascende la recitazione per diventare testimonianza.

L'appartamento stesso è il terzo protagonista, un organismo vivente che soffoca lentamente i suoi abitanti. Un'accumulazione stratificata di cultura che diventa puro ingombro, un'estensione fisica della mente di Lui che tenta di mantenere un ordine e della mente di Lei che si è arresa al caos. Ogni libro, ogni DVD, ogni appunto è un appiglio a un'identità che si sta sgretolando. In questo, Vortex dialoga a distanza con la letteratura del disfacimento, quasi fosse una versione cinematografica e claustrofobica de Le cose di Georges Perec, ma al termine del loro ciclo vitale, quando le cose non definiscono più uno status ma seppelliscono i loro possessori. La macchina da presa di Noé, tradizionalmente acrobatica e invasiva, qui si fa più paziente, più osservazionale, ma non meno spietata. I suoi lunghi piani sequenza non sono più viaggi psichedelici come in Enter the Void, ma pedinamenti in un tempo stagnante, la cronaca di un'attesa senza speranza.

Il film, nella sua durata estenuante e nel suo rifiuto di ogni catarsi consolatoria, diventa un'esperienza fisica per lo spettatore. Il dispositivo dello split-screen ci costringe a una scelta continua: chi guardare? Il tentativo di Lui di scrivere o lo smarrimento di Lei in cucina? Il dialogo del figlio (Alex Lutz), figura tragica e impotente che rappresenta il mondo esterno e la sua inadeguatezza, con uno dei genitori, mentre l'altro compie un'azione cruciale fuori campo visivo, ma nello stesso tempo narrativo? Questa divisione dell'attenzione non è un gioco, ma una simulazione dell'impotenza, un modo per farci sentire la frattura insanabile tra le due solitudini. L'audio, spesso sovrapposto e confuso, contribuisce a questo senso di disorientamento, facendoci esperire sensorialmente il collasso della comunicazione.

Noé, che ha sempre concluso i suoi film con il suo celebre motto "Le temps détruit tout" (Il tempo distrugge tutto), non ne aveva mai dato una dimostrazione così letterale, così priva di filtri estetizzanti. Se in Irréversible la distruzione era un atto violento e istantaneo, qui è un processo lento, una corrosione inarrestabile, l'entropia applicata all'esistenza. Non c'è un cattivo da incolpare, non c'è un trauma da esorcizzare. C'è solo il processo biologico nella sua forma più nuda. In questo, Vortex è forse l'horror definitivo, perché il mostro non è esterno, ma è il tempo stesso, il meccanismo inesorabile di cui siamo tutti parte.

L'opera di Noé, alla fine, non è un film sulla vecchiaia o sulla demenza in senso sociologico o medico. È un trattato cinematografico sulla fine della coscienza individuale. Un'installazione artistica che usa il cinema per mostrare l'ultimo stadio della separazione, quello che precede la dissoluzione finale. E quando, dopo più di due ore, la barriera nera che divide lo schermo inizia lentamente a espandersi, inghiottendo prima un'immagine e poi l'altra, non assistiamo alla fine di un film, ma alla rappresentazione visiva più pura dell'oblio. I due universi paralleli, che per tutto il tempo hanno lottato per coesistere, vengono infine unificati dal buio. Il vortice ha completato il suo corso. Il silenzio che segue non è la fine della proiezione, ma l'eco della sua verità devastante. Un capolavoro terminale, necessario e intollerabile.

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