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Il Posto delle Fragole

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Isak Borg è un anziano primario di medicina in pensione che sta viaggiando verso l’Università di Lund per ritirare un’onorificenza alla carriera. Il suo è un viaggio che si preannuncia come un’ultima, rituale consacrazione pubblica di un’esistenza irreprensibile, quasi impeccabile nella sua rigorosa adesione a logiche intellettuali e accademiche. Eppure, sotto la superficie della rispettabilità borghese, cova un’aridità emotiva e una solitudine morale che nemmeno la più prestigiosa delle onorificenze può celare.

Durante il viaggio affronterà incubi e allucinazioni che gli prospetteranno un passato diverso in relazione alle scelte compiute. Non sono semplici fantasmi della mente, ma vere e proprie voragini aperte sull’inconscio, squarci brutali che lacerano il velo della sua autoingannevole compostezza. Attraverso sequenze di un onirismo vivido e perturbante, Bergman ci trascina nella spirale della psiche di Isak, costringendolo a confrontarsi con i suoi fallimenti affettivi, le sue rigidità caratteriali e l'egoismo che ha segnato i rapporti con la moglie, il figlio e persino la sua amata cugina Sara, l'incarnazione di un amore perduto e idealizzato. Il tempo, simboleggiato da orologi senza lancette o da un funerale in cui Isak stesso è il defunto, si svela come un tiranno implacabile che esige un saldo, non solo di successi professionali, ma di vita vissuta e di affetti coltivati.

Il viaggio diverrà strumento di catarsi in bilico tra redenzione e dannazione. È un’odissea interiore, un pellegrinaggio dell'anima che ricorda le discese agli inferi della tradizione epica, sebbene qui gli inferi siano le pieghe più recondite di un’esistenza umana. Il veicolo, un’auto in cui la strada si snoda tra i ricordi, diventa un mezzo per navigare nel mare magnum della memoria, tra rimpianti e barlumi di una gioia infantile ormai irraggiungibile.

Quando nel corso di questo fatidico viaggio incontrerà tre ragazzi che gli chiedono un passaggio sarà l’occasione per mettere in gioco se stesso, scrollandosi di dosso angoscia e aridità. Questi giovani, emblemi di una vitalità e di una leggerezza perdute, fungono da specchio impietoso e, al contempo, da catalizzatori di un possibile risveglio. La loro vivace dialettica sulla vita, la morte, l’amore e la religione, pur sfiorando la superficie della mente scettica di Isak, inizia a erodere le sue difese, costringendolo a riconsiderare l’aridità del proprio cuore e l’illusione di poter vivere esente dal caos delle emozioni umane. La loro spontaneità e la loro sete di vita contrastano nettamente con il suo nichilismo raffinato, offrendogli un’ultima, inaspettata lezione sulla bellezza dell’abbandono al flusso esistenziale.

Bergman gioca, soprattutto nella prima parte del film, tra sogno e realtà, facendo balenare dinanzi all’occhio vigile della sua cinepresa la scomposizione di una mente attraverso le sue paure, qualcosa di simile al lavoro che Sigmund Freud compiva sui suoi pazienti attraverso l’analisi del piano onirico. Non è solo una citazione colta, ma l'applicazione di una metodologia che Bergman, con la sua ineguagliabile acutezza psicologica, trasforma in linguaggio cinematografico. La macchina da presa di Gunnar Fischer si fa sonda, penetrando l’inconscio con un’audacia visiva che anticipa di decenni il cinema della psiche. Le immagini non si limitano a illustrare il subconscio, ma lo creano, lo rendono tangibile, quasi palpabile nella sua sofferenza e nel suo mistero. La regia è una seduta analitica in movimento, dove ogni fotogramma è un frammento di memoria, una proiezione di paure, un tentativo di decifrare il codice segreto di un’anima in crisi.

E proprio le sequenze oniriche richiamano alla memoria l’Espressionismo tedesco a cui Bergman evidentemente paga tributo. L'eco di capolavori come Il gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene non è solo stilistica, ma profonda: l'Espressionismo mirava a rendere visibile il tormento interiore, a deformare la realtà per riflettere lo stato d'animo, e Bergman ne assorbe la lezione per costruire un paesaggio mentale cupo e angosciante. Le luci e le ombre taglienti, le scenografie evocative e i primi piani che catturano l'espressione di un terrore atavico non sono solo scelte estetiche, ma strumenti per esporre la fragilità umana di fronte alla morte, al rimpianto e all’ineluttabilità del tempo. Il "posto delle fragole", la metafora del luogo dell’innocenza perduta, è in questo contesto una scheggia di luce e nostalgia che contrasta con l'ombra densa del presente di Isak.

Un film in sostanza che dispiega tutta la sua arte d’introspezione psicologica denudando l’uomo in quanto essere pensante e fornendoci un codice di accesso alle sue memorie più intime. Bergman non si limita a ritrarre una crisi di coscienza, ma indaga la possibilità di una redenzione tardiva, il coraggio di affrontare i propri demoni per trovare una pace interiore. Il Posto delle Fragole si erge così come uno dei vertici del cinema bergmaniano, un’opera che, al pari di Persona o Sussurri e grida, si addentra senza compromessi nelle profondità dell'animo umano, rivelandone le ferite ma anche la capacità di una purificazione spirituale. È una riflessione sulla vita, sulla morte e sul significato dell’esistenza che trascende il singolo, diventando universale.

Una sorta di grimaldello mentale, dilaniante e lisergico, che scardina le porte dell’anima e ci restituisce, con rara intensità poetica, il ritratto commovente e brutale di un uomo che, nel crepuscolo della sua vita, trova la forza di guardarsi negli occhi e, forse, di perdonarsi.

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