Winchester '73
1950
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Regista
Un fucile. Non un uomo, non un'idea, ma un oggetto. Un’anima d’acciaio e legno, nata in una serie limitata, "una su mille", perfetta. Il Winchester modello 1873 che dà il titolo al capolavoro di Anthony Mann è molto più di un MacGuffin hitchcockiano, un mero pretesto per innescare l'azione. È il vero motore immobile della narrazione, un feticcio che, passando di mano in mano, traccia una mappa della frontiera americana non come epopea fondativa, ma come teatro di avidità, tradimento e violenza primordiale. Il fucile è il vero protagonista, un idolo pagano attorno al quale danzano, e muoiono, le falene umane che ne vengono attratte.
La struttura del film è, in questo senso, di una modernità sbalorditiva, quasi picaresca. Se in un romanzo come il Lazarillo de Tormes seguiamo un antieroe attraverso i suoi vari padroni per avere un affresco della società, qui seguiamo un oggetto attraverso i suoi effimeri possessori. Il Winchester diventa un reagente chimico, un catalizzatore che rivela la vera natura di chi lo impugna: l'onesto ma ossessionato Lin McAdam, il suo nemico mortale Dutch Henry Brown, un trafficante d'armi senza scrupoli, un capo indiano visionario e infine un codardo disperato. Ogni passaggio di proprietà è un capitolo a sé, una vignetta brutale e concisa che espande il nostro sguardo su questo mondo spietato. È una narrazione quasi oggettuale, un'idea che Robert Bresson avrebbe sublimato anni dopo con il suo asino in Au hasard Balthazar, dove un essere non senziente diventa lo specchio della crudeltà e della grazia umana. Mann, con pragmatismo tutto americano, sceglie un fucile, il simbolo per eccellenza della conquista e della violenza del West.
Al centro di questa odissea metallica si muove la figura di Lin McAdam, e qui si compie il vero miracolo del film, una delle più geniali e coraggiose operazioni di decostruzione divistica della storia di Hollywood. James Stewart, fino a quel momento l'incarnazione dell'americano medio, l'eroe gentile e un po' goffo dei film di Frank Capra, l'idealista Mr. Smith, viene scarnificato, ridotto all'essenza di una pura, incandescente ossessione. Il suo Lin McAdam non è un eroe. È un uomo ferito, animato da un furore che lo consuma dall'interno. I suoi occhi non hanno più la luce sognante di George Bailey; sono due fessure dure, fisse su un unico obiettivo. Quando spara, non c'è esitazione, solo una perizia fredda e letale. La sua abilità con il fucile non è un talento, è una maledizione, il risultato di un addestramento forgiato nel fuoco di un trauma indicibile.
Questa trasformazione, che avrebbe dato il via alla straordinaria serie di cinque western psicologici girati in coppia da Mann e Stewart (Là dove scende il fiume, Lo sperone nudo, Terra lontana, L'uomo di Laramie), è un evento epocale. Rappresenta l'ingresso dell'inquietudine e della nevrosi del noir nel paesaggio solare e mitico del western. Lin McAdam è un detective hard-boiled con gli speroni, un Philip Marlowe che non si aggira per le strade bagnate di pioggia di Los Angeles ma per le pianure polverose del Kansas. La sua quête non è per la giustizia, ma per una vendetta personale che ha le radici profonde del dramma familiare. È un'eco della psiche americana del secondo dopoguerra, una nazione che aveva vinto il conflitto ma che ne era uscita segnata, consapevole delle zone d'ombra dell'animo umano e della facilità con cui la civiltà poteva regredire alla barbarie. Stewart diventa il veicolo di questa disillusione, il volto rassicurante che mostra per la prima volta le sue crepe. L'aneddoto sulla produzione è, in questo caso, una perfetta metafora: Stewart, così convinto del progetto, rinunciò al suo solito ingaggio per una percentuale sugli incassi, una scommessa che lo rese ricchissimo e che cambiò per sempre le dinamiche contrattuali tra le star e gli studios. Un azzardo, proprio come quello dei suoi personaggi, che pagò magnificamente.
La regia di Anthony Mann è la cornice perfetta per questo dramma. A differenza del West monumentale e quasi lirico di John Ford, dove il paesaggio è spesso un testimone maestoso della storia e della comunità, per Mann la natura è un'antagonista. È un labirinto di rocce aguzze, canyon spogli e pianure assolate che riflette la topografia morale dei personaggi. Le sue inquadrature non celebrano lo spazio, lo comprimono. I personaggi sono spesso intrappolati, schiacciati dalla verticalità delle formazioni rocciose o esposti nell'orizzontalità infinita della prateria. La celeberrima sparatoria finale tra Lin e Dutch Henry non avviene in una strada cittadina secondo i canoni classici, ma su un'impervia parete di roccia, un paesaggio quasi lunare. È un duello verticale, disperato, dove i due contendenti si arrampicano, strisciano, si nascondono come animali braccati. La geografia diventa la manifestazione fisica del loro conflitto interiore, un'arena primordiale dove la civiltà è solo un lontano ricordo. È un western da camera girato a cielo aperto, un Kammerspiel esistenziale dove l'ambiente non è sfondo, ma personaggio attivo e ostile.
Ma il vero cuore nero, il nucleo tragico che eleva Winchester '73 al di sopra del genere, è la rivelazione finale, preparata con una tensione quasi insopportabile. Dutch Henry Brown non è solo un fuorilegge; è Matthew, il fratello di Lin. E il crimine per cui Lin lo sta cacciando non è un semplice omicidio, ma un parricidio. Di colpo, il film trascende i confini del western e approda sulle sponde della tragedia greca, del dramma shakespeariano, del racconto biblico. È la storia di Caino e Abele riscritta con la polvere da sparo. L'ossessione di Lin non è più solo sete di vendetta, ma il tentativo disperato di estirpare una colpa che è anche sua, una macchia sul sangue della sua famiglia. Il Winchester "una su mille" diventa così lo strumento del Fato, un oggetto maledetto che deve compiere il suo ciclo di violenza per ristabilire un ordine cosmico violato. Il duello finale non è più un semplice regolamento di conti, ma un sacrificio rituale, l'unico modo per chiudere una ferita che affonda nelle radici stesse dell'esistenza.
In questo, Winchester '73 si rivela come un testo fondamentale, un punto di svolta che ha influenzato tutto ciò che è venuto dopo, da Sam Peckinpah a Sergio Leone, fino a Cormac McCarthy. McCarthy, in particolare, sembra aver assorbito la lezione di Mann: i suoi romanzi, come Meridiano di Sangue, sono popolati da figure mosse da impulsi incomprensibili e violenti, in un paesaggio che è l'incarnazione di un dio crudele e indifferente. Il fucile, questo oggetto perfetto e inanimato, funge da specchio oscuro per l'imperfezione e la furia dell'umanità. Non è lo strumento che corrompe, ma quello che rivela una corruzione già presente. È il simbolo di un'America la cui identità è forgiata tanto sulla perfezione tecnologica e sull'ambizione quanto su una violenza fratricida che, come un peccato originale, continua a riemergere dai recessi della sua mitologia. Un capolavoro assoluto, la cui eco metallico risuona ancora oggi, potente e terribile.
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