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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

XIII emendamento

2016

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Un documentario può funzionare come un teorema, una dimostrazione in cui ogni passaggio logico è rafforzato da un’evidenza visiva, ogni sillogismo montato in sequenza con la precisione di un orologiaio. XIII emendamento di Ava DuVernay è esattamente questo: una macchina argomentativa implacabile, un dispositivo ottico che non si limita a mostrare una realtà, ma ne disseziona la grammatica profonda, l'infrastruttura ideologica. L’opera di DuVernay non è un semplice reportage; è saggistica per immagini, un’orazione funebre per l’innocenza di una nazione, costruita con il ritmo martellante di un pezzo industrial e la lucidità spietata di una diagnosi medica. La sua tesi, esposta con la chiarezza quasi didascalica di un trattato, è che l'abolizione della schiavitù, sancita dal Tredicesimo Emendamento della Costituzione americana, contenesse in sé il seme della propria perpetuazione attraverso una clausola apparentemente innocua: la schiavitù e il lavoro forzato sono illegali, "tranne che come punizione per un crimine". È questo scarto semantico, questa eccezione legale, a diventare il motore immobile di una storia lunga un secolo e mezzo.

DuVernay orchestra il suo film non come una narrazione lineare, ma come una fuga bachiana, in cui il tema principale – la criminalizzazione come forma di controllo razziale – viene continuamente ripreso, variato e intrecciato in un contrappunto sempre più complesso e assordante. La struttura è polifonica: un coro di accademici, attivisti e politici (da Angela Davis a Newt Gingrich, una scelta che di per sé è una dichiarazione di intenti sulla pervasività del sistema) fornisce il commento analitico, mentre un torrenziale flusso di materiale d'archivio agisce come controcanto visivo. L'effetto è ipnotico e sconvolgente. DuVernay possiede un talento quasi sadico per la giustapposizione. Un discorso rassicurante di un politico sulla "legge e l'ordine" viene montato in parallelo con immagini di violenza poliziesca; le statistiche sull'incarcerazione di massa, proiettate a schermo con una tipografia netta e brutale, interrompono il flusso come sentenze capitali. In questo, il suo metodo ricorda quello di Adam Curtis, il grande documentarista della BBC, ma con una differenza sostanziale. Se Curtis costruisce labirinti ipertestuali sulla paranoia tardo-capitalista, invitando lo spettatore a perdersi nel collage, DuVernay erige una cattedrale gotica di causa ed effetto, un edificio logico da cui è impossibile fuggire. Ogni mattone è posizionato con cura per sostenere quello successivo, dalla Ricostruzione post-Guerra Civile e le leggi "Jim Crow" fino alla "War on Drugs" di Nixon e Reagan e al "Crime Bill" di Clinton.

Il film compie la sua mossa più geniale quando si confronta non solo con la storia, ma con la storia del cinema. XIII emendamento si apre con una dissezione di Nascita di una nazione (1915) di D.W. Griffith. Non è una scelta casuale. DuVernay comprende che il film di Griffith non è solo un documento del suo tempo, ma un testo fondativo che ha letteralmente plasmato l'immaginario americano, codificando l'iconografia del nero come minaccia e del Ku Klux Klan come eroico difensore dell'ordine. Inserendolo all'inizio, DuVernay sta dichiarando guerra al cinema stesso, o meglio, al suo potere di creare e perpetuare mitologie. Il suo film diventa un anti-Nascita di una nazione, un tentativo di risemantizzare le stesse immagini, di usare il montaggio e l'analisi per smontare il mito che il montaggio e la narrazione avevano costruito un secolo prima. È un duello meta-testuale, una battaglia combattuta sul terreno della rappresentazione, dove la macchina da presa diventa un'arma per la decostruzione. In questo senso, l’opera di DuVernay si colloca in una tradizione di cinema-saggio che va da Chris Marker a Harun Farocki, cineasti che hanno sempre interrogato non solo il mondo, ma anche il modo in cui le immagini del mondo vengono prodotte e consumate.

La potenza di XIII emendamento non risiede tanto nella rivelazione di fatti sconosciuti – per chiunque abbia una minima conoscenza della storia americana, molti dei dati presentati non sono una novità – quanto nella sua capacità di sintesi e nella forza della sua architettura retorica. È un atto d'accusa cinematografico che ha la stessa forza perentoria del J'accuse…! di Émile Zola. Come Zola usò la forma della lettera aperta per scuotere le fondamenta della Terza Repubblica francese, così DuVernay usa la forma del documentario per mettere sotto processo un intero sistema socio-economico. Il film analizza con lucidità chirurgica il ruolo delle corporazioni, del complesso penitenziario-industriale e del lobbismo politico (attraverso l'esempio di ALEC, l'American Legislative Exchange Council) nel trasformare i corpi dei carcerati in merce, in una fonte di profitto inesauribile. Questo passaggio dall'analisi storica alla critica del capitalismo contemporaneo è ciò che eleva il film oltre la semplice denuncia, trasformandolo in un'opera che parla con urgenza del presente. Ricorda la critica della Scuola di Francoforte all'industria culturale, ma applicata al sistema giudiziario: un apparato che non produce solo giustizia (o ingiustizia), ma che produce e gestisce attivamente una forza lavoro a basso costo e un elettorato privato dei diritti.

Esteticamente, il film è di una pulizia formale quasi ingannevole. Le interviste sono girate in ambienti sobri, quasi astratti – magazzini, loft industriali – che isolano i soggetti e conferiscono alle loro parole un peso monumentale. La colonna sonora, che spazia dal jazz al soul fino all'hip-hop, non è mai un semplice sottofondo emotivo, ma un ulteriore livello di commento culturale. L'uso di canzoni come "The Peculiar Institution" di Common, scritta appositamente per il film, rafforza l'idea che questa non sia solo una storia passata, ma una narrazione viva e pulsante nella cultura contemporanea. Il ritmo del montaggio, curato da Spencer Averick, è il vero cuore pulsante dell'opera: è un ritmo che non concede tregua, che accumula prove su prove, che costringe lo spettatore a una forma di attenzione totale, quasi estenuante. Non si esce da XIII emendamento con la sensazione di aver visto un film, ma di aver subito un'interrogazione, di essere stati costretti a connettere i punti di un disegno vasto e terrificante che si nascondeva in piena vista.

In un'epoca di polarizzazione estrema, un'opera come questa rischia di essere letta unicamente attraverso una lente politica. Sarebbe un errore. Al di là del suo messaggio, XIII emendamento è un capolavoro di forma documentaria, un esempio magistrale di come il cinema possa farsi veicolo di un pensiero complesso e stratificato senza mai rinunciare alla sua potenza visiva ed emotiva. Non è un pamphlet, ma un'analisi strutturale. Non cerca di convincere attraverso il pathos, ma attraverso la schiacciante evidenza della sua costruzione logica. È un film che, come i grandi romanzi di Fëdor Dostoevskij, esplora le profondità della colpa collettiva e le conseguenze morali di un peccato originale che continua a proiettare la sua ombra sul presente. DuVernay ha creato più di un film importante; ha creato un palinsesto su cui leggere la storia americana, un prisma attraverso cui le immagini familiari di telegiornali e film di Hollywood vengono rifratte e mostrate per quello che sono: frammenti di un'unica, coerente e desolante narrazione.

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