Z - L'orgia del potere
1969
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Regista
Un congegno a orologeria. Ecco cos'è Z - L'orgia del potere. Non un film nel senso tradizionale di una narrazione che si srotola, ma un meccanismo di precisione svizzera, un assemblaggio incandescente di ingranaggi narrativi, contrappunti ritmici e scariche di pura adrenalina politica. Costa-Gavras, esule greco che trasforma la sua rabbia in un bisturi cinematografico, non dirige un'opera; orchestra un'autopsia in tempo reale. L'autopsia di una democrazia. La pellicola si presenta con un avvertimento che è una dichiarazione di guerra: «Ogni somiglianza con avvenimenti reali, con persone vive o morte, non è casuale. È VOLUTA». È il guanto di sfida lanciato contro il regime dei Colonnelli che aveva appena strangolato la sua patria, un atto di J'accuse filmico così potente da trascendere il suo specifico contesto storico per diventare il prototipo universale del thriller politico moderno.
La sua struttura è una spirale vertiginosa. Inizia con la placida arroganza del potere, una conferenza sulla "muffa ideologica" che ammorba la nazione, per poi esplodere nel caos di una piazza, in un attentato mascherato da incidente. Da quel momento, il film si biforca. Da un lato, seguiamo il passato, i frammenti della vita e dell'impegno del Deputato (un Yves Montand carismatico e quasi mitologico nella sua idealizzata assenza), un medico pacifista la cui sola esistenza è un affronto al sistema. Dall'altro, siamo proiettati in un presente febbrile, l'indagine condotta dal Giudice Istruttore, un Jean-Louis Trintignant monumentale nella sua metamorfosi. Il montaggio di Agnès Guillemot, allieva di Resnais, non si limita a tagliare e incollare scene; frantuma la linearità temporale, intrecciando flashback, flash-forward e punti di vista multipli in un mosaico che riflette la natura stessa della verità: un'entità frammentaria, da ricostruire pezzo per pezzo contro la monolitica narrazione della menzogna di stato.
È in questo che Z compie il suo primo, geniale scarto. Utilizza il linguaggio cinetico e adrenalinico del cinema di genere – l'inseguimento, la suspense, il colpo di scena – per veicolare un messaggio di una serietà abissale. È come se Sam Peckinpah avesse deciso di adattare un saggio di Hannah Arendt sulla banalità del male. La partitura di Mikis Theodorakis, lui stesso perseguitato dal regime, non è un semplice accompagnamento; è il battito cardiaco accelerato del film, un bouzouki che si fa strumento di lotta, un ritmo tribale e ossessivo che spinge l'azione e lo spettatore verso un punto di non ritorno. Costa-Gavras capisce che per denunciare l'asfissia di un regime autoritario non serve un dramma da camera intellettualistico, ma una scarica elettrica che scuota il pubblico dalla sua apatia. È un cavallo di Troia: entri in sala aspettandoti un thriller alla francese e ne esci con una lezione bruciante sulla fragilità delle istituzioni.
Il cuore pulsante del meccanismo, però, è il Giudice Istruttore di Trintignant. All'inizio è un ingranaggio del sistema. Impeccabile, freddo, quasi disumano nel suo abito scuro e con i suoi occhiali spessi che sembrano uno scudo contro il mondo. È un personaggio kafkiano, un funzionario di un castello invisibile che crede nella procedura, nella forma, nella legge come entità astratta. Eppure, testimone dopo testimone, bugia dopo bugia, la sua corazza inizia a creparsi. La sua non è una conversione ideologica; è una rivolta estetica, quasi matematica. Le menzogne dei militari e dei poliziotti non quadrano, sono ineleganti, offendono la sua logica, il suo senso dell'ordine. È un tecnico della legge che, di fronte al caos organizzato della cospirazione, riscopre l'etica. La sua indagine diventa un'anomalia, un bug nel programma del regime. In questo, il suo arco narrativo evoca quasi l'inverso del western classico: non è lo sceriffo che impone la legge in una terra selvaggia, ma l'uomo di legge che deve diventare un fuorilegge morale per difendere la legge stessa da coloro che dovrebbero incarnarla. È il burocrate che diventa eroe non per scelta, ma per necessità logica.
Il film, basato sul romanzo di Vassilis Vassilikos che raccontava l'assassinio del politico Grigoris Lambrakis nel 1963, è intriso di un'urgenza documentaristica. Girato in Algeria – l'unica nazione che osò ospitare una produzione così apertamente anti-fascista – con le sue architetture bianche e assolate che evocano un Mediterraneo senza nome e per questo universale, Z cattura l'atmosfera opprimente di una società sotto sorveglianza. Le figure dei generali e dei capi della polizia non sono mostri caricaturali. Sono uomini mediocri, grigi, la cui pericolosità risiede proprio nella loro banale convinzione di agire per il bene della nazione, usando un linguaggio orwelliano dove la repressione diventa "risanamento" e l'omicidio un "incidente". Sono la personificazione del potere quando diventa fine a se stesso, un'orgia autoreferenziale di bandiere, parate e violenza sussurrata.
C'è poi un livello meta-testuale, una riflessione profonda sulla natura della testimonianza nell'era della riproducibilità tecnica. Il personaggio chiave per la scoperta della verità non è un poliziotto o un avvocato, ma un fotoreporter (un giovane e febbrile Jacques Perrin, anche produttore del film). La sua macchina fotografica, i suoi scatti, diventano l'occhio oggettivo che smaschera la farsa. L'immagine meccanica si contrappone alla narrazione manipolata dello Stato. Costa-Gavras ci mostra più volte la stessa scena da angolazioni diverse, rallentandola, analizzandola, proprio come farebbe il suo fotografo nella camera oscura o il giudice nel suo ufficio. Il cinema stesso diventa strumento d'inchiesta, un modo per sezionare la realtà e smascherare l'inganno. In un'epoca pre-digitale, pre-social media, Z anticipa profeticamente il ruolo centrale dell'immagine come prova e come arma nel conflitto tra cittadini e potere.
Ma il capolavoro di Costa-Gavras non sarebbe tale senza il suo finale, uno dei più gelidi e disperati della storia del cinema. Dopo la meticolosa ricostruzione della verità da parte del Giudice, dopo l'incriminazione dei vertici militari e di polizia, lo spettatore si aspetta la catarsi, la vittoria della giustizia. E invece, una serie di didascalie implacabili, su uno schermo nero rotto solo dal suono martellante di un telegrafo, ci informa del destino dei protagonisti. Il Giudice viene rimosso. I testimoni muoiono in "strani" incidenti. I colpevoli ricevono pene lievi. I militari prendono il potere con un colpo di stato. La vittoria della legge era solo un'illusione, un breve interludio prima della notte. E poi, il colpo di grazia: l'elenco surreale e terrificante delle cose bandite dal nuovo regime. La musica moderna, i Beatles, Sofocle, Tolstoj, la libertà di stampa, la sociologia, le minigonne e la lettera "Z", che significa "Zei": "(egli) è vivo".
È in questa chiusura che il film trascende il suo tempo e diventa un monito eterno. Ci dice che smascherare la menzogna non è sufficiente. Ci dice che la verità, da sola, non basta a sconfiggere il potere quando questo ha deciso di abbandonare ogni parvenza di legalità. Z è un thriller perfetto nella sua esecuzione, ma è una tragedia greca nella sua anima. Un'opera che dimostra come il cinema possa essere allo stesso tempo arte popolare di altissimo intrattenimento e il più acuminato strumento di coscienza civile. Non invecchia, perché le dinamiche che descrive – la manipolazione della verità, la violenza di stato travestita da ordine, il coraggio di pochi contro la complicità di molti – sono, purtroppo, un algoritmo perenne della storia umana. Un meccanismo perfetto, sì, ma che ticchetta ancora oggi, sinistramente.
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