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La nera di...

1966

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Un'inquadratura può contenere un intero orizzonte di speranze. Quella di Diouana (M'Bissine Thérèse Diop), giovane donna senegalese, che scruta il mare dalla prua di una nave diretta a Marsiglia, è un intero universo di sogni. Il suo sguardo è proiettato verso una Francia mitologica, un costrutto mentale nutrito da riviste patinate e racconti idealizzati. La Costa Azzurra, per lei, non è un luogo geografico, ma un concetto: la promessa di una vita nuova, di emancipazione, di scoperta. Ousmane Sembène, con la grazia spietata di un entomologo, cattura questo momento di pura potenzialità per poi, nell'ora successiva, sezionarlo con un bisturi affilato fino a esporne il nervo tragico. La nera di... (1966) non è semplicemente un film; è un atto di nascita, un grido primordiale che segna l'avvento del cinema dell'Africa subsahariana sulla scena mondiale, e lo fa con la furia contenuta di un capolavoro che rifiuta ogni compromesso.

Il film, con la sua estetica scarnificata e il suo bianco e nero quasi documentaristico, si pone in un dialogo serrato e dialettico con le correnti cinematografiche europee del suo tempo. A prima vista, l'attenzione agli umili, le riprese in location reali e l'uso di attori non professionisti potrebbero evocare il Neorealismo italiano. Ma Sembène compie uno scarto semantico cruciale: se per De Sica la bicicletta era il simbolo di una lotta di classe economica, per Sembène la maschera africana che Diouana regala ai suoi datori di lavoro francesi diventa il fulcro di una disamina psicologica e culturale ben più complessa. La maschera, inizialmente un dono, un ponte tra due culture, viene appesa al muro bianco dell'appartamento di Antibes, trasformata in un feticcio esotico, un pezzo di arredamento. In questo gesto si consuma il destino di Diouana stessa: da soggetto desiderante a oggetto posseduto, da governante a "la nera di...", un'appendice senza nome definita solo dalla sua funzione e dalla sua appartenenza.

La struttura narrativa del film è un congegno a orologeria di rara efficacia. Il presente asfissiante di Antibes, un non-luogo di routine domestica e alienazione, è costantemente interrotto dai flashback della vita di Diouana a Dakar. Questi squarci di memoria non sono semplici inserti esplicativi; sono esplosioni di vitalità, di colore (sebbene il film sia in bianco e nero), di comunità e di libertà. Il contrasto è lancinante. La Dakar di Sembène non è un paradiso perduto, ma un luogo di vita pulsante, di interazione sociale, dove Diouana, pur nella sua semplicità, era un individuo completo. Ad Antibes, è ridotta a un automa silenzioso. Sembène costruisce la prigione di Diouana non con sbarre e catene, ma con i muri immacolati di un appartamento borghese, con il ronzio dell'aspirapolvere e con il silenzio carico di aspettative inespresse. L'inferno, qui, non è solo "gli altri", come avrebbe detto Sartre in A porte chiuse, ma è l'architettura stessa dello spazio domestico coloniale, un ambiente che neutralizza l'identità e la riduce a funzione.

È impossibile non pensare, per un'analogia forse azzardata ma cinematograficamente pertinente, a Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman. Sebbene girato quasi un decennio dopo e in un contesto completamente diverso, entrambi i film utilizzano la ripetizione ossessiva dei gesti quotidiani per mappare la disintegrazione psicologica di una donna intrappolata. La cucina, per entrambe le protagoniste, diventa un campo di battaglia esistenziale. Ma dove Akerman esplora il collasso di un ordine matriarcale e borghese, Sembène mette a nudo la violenza sottile del rapporto post-coloniale. La crudeltà dei datori di lavoro di Diouana non è quasi mai plateale o sadica. È la crudeltà dell'incomprensione, dell'indifferenza, del paternalismo che maschera un disprezzo abissale. La signora la tratta come una bambina capricciosa, il signore come un oggetto da esibire agli amici durante una cena imbarazzante ("Sa fare un ottimo riso africano", dice, come si parlerebbe di un elettrodomestico).

Il dispositivo narrativo più potente del film è la voce fuori campo di Diouana. Il suo monologo interiore, poetico e disperato, funge da contrappunto alla sua quasi totale afasia nel presente. Mentre il suo corpo esegue meccanicamente i compiti richiesti, la sua mente vaga, ricorda, accusa, si interroga. "Perché sono qui?", si chiede, una domanda che risuona come un'eco della grande letteratura esistenzialista. Questa dicotomia tra la ricchezza della sua vita interiore e il vuoto delle sue interazioni esterne è la rappresentazione plastica della condizione del colonizzato descritta da Frantz Fanon nel suo seminale Pelle nera, maschere bianche. Diouana indossa la "maschera bianca" della serva sottomessa, ma sotto di essa la sua identità africana si ribella e infine si spezza. Il film di Sembène è la perfetta trasposizione cinematografica del dramma fanoniano: il desiderio di riconoscimento da parte dell'Altro (il francese, il bianco) che si tramuta in una trappola mortale, un'alienazione che porta all'annientamento.

La fotografia di Christian Lacoste è di una bellezza austera e funzionale. I primi piani sul volto di M'Bissine Thérèse Diop ricordano, per intensità e capacità di comunicare il tormento interiore, la Maria Falconetti de La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer. Il suo viso diventa una mappa su cui lo spettatore legge la progressione della delusione, della frustrazione, della rabbia e, infine, della disperazione. Sembène, che era anche un romanziere prima di diventare regista, comprende il potere del non detto, dell'ellissi. La tragedia si consuma fuori campo, in un bagno, con una freddezza che amplifica l'orrore. Il suicidio di Diouana non è un atto di debolezza, ma l'estrema, terribile affermazione della propria soggettività. È l'unico atto di libertà che le è rimasto: il rifiuto di continuare a essere un oggetto, la scelta di sottrarre il proprio corpo a quello sguardo che la definisce e la imprigiona.

Il finale è un colpo di genio, un ribaltamento dello sguardo che chiude il cerchio e apre a nuove, inquietanti prospettive. Il marito, tornato a Dakar per restituire la valigia di Diouana e la maschera alla famiglia di lei, è perseguitato dalla figura di un bambino che indossa proprio quella maschera. Il bambino lo segue, lo fissa, silenzioso e accusatore. Lo sguardo dell'europeo, che per tutto il film ha oggettivato e dominato, è ora messo in scacco. È lui, adesso, a essere l'oggetto di uno sguardo indecifrabile, quello di un'Africa che non si lascia più definire, che non accetta più le sue scuse tardive né il suo denaro. La maschera, tornata al suo luogo d'origine, ha riacquistato il suo potere ancestrale e spirituale. Non è più un soprammobile, ma un volto che giudica.

La nera di... è un pugnale di cinema, un'opera di 65 minuti che ha la densità e il peso di un'epopea. Ousmane Sembène non si limita a denunciare una condizione; orchestra una sinfonia tragica sull'identità, la memoria e il potere distruttivo di un sogno che si rivela un incubo. È un film che si è fatto carico della responsabilità di dare voce a un continente e che, a quasi sessant'anni di distanza, non ha perso un'oncia della sua potenza. Anzi, in un mondo ancora attraversato da dinamiche post-coloniali e da dibattiti sull'identità culturale, la sua lucidità brucia con un'urgenza quasi profetica. Un'opera fondamentale, non solo per la storia del cinema africano, ma per la storia del cinema tout court.

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