Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Bowling a Columbine

2002

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Un'autopsia grottesca del sogno americano, condotta con il bisturi della satira e la telecamera di un provocatore. Michael Moore, con la sua silhouette da everyman del Midwest e il berretto da baseball calcato sulla testa come una corona beffarda, non dirige un documentario nel senso canonico del termine. Bowling for Columbine è piuttosto un saggio filmico che si maschera da inchiesta, un pamphlet visivo che ha la stessa struttura logica e la stessa ferocia morale di una Modesta Proposta di Jonathan Swift. Laddove lo scrittore irlandese suggeriva, con logica agghiacciante, di mangiare i bambini per risolvere la carestia, Moore apre un conto in banca per ricevere in omaggio un fucile, esponendo un cortocircuito semantico e culturale che è il cuore pulsante e malato della nazione che pretende di raccontare.

Il film, uscito nel 2002 ma concepito nel grembo ancora caldo della tragedia del 1999, si pone una domanda apparentemente semplice: perché gli Stati Uniti hanno un tasso di mortalità per arma da fuoco così spaventosamente più alto di altre nazioni industrializzate? La risposta, o meglio, il labirinto di non-risposte che Moore costruisce, è un capolavoro di montaggio dialettico e di performance art. Moore non è un osservatore invisibile, un documentarista che si attiene alla scuola del cinéma vérité. Al contrario, è il protagonista e il demiurgo della sua stessa narrazione, un erede diretto del giornalismo Gonzo di Hunter S. Thompson, che getta il proprio corpo e la propria soggettività nell'arena per svelare la verità nascosta dietro la facciata. Il suo metodo è quello del Trickster, la figura mitologica che sovverte l'ordine costituito attraverso l'inganno e l'ironia. La sua presenza fisica, goffa e insistente, diventa un reagente chimico che fa precipitare la follia latente in manifestazioni visibili, quasi tangibili. Quando porta due sopravvissuti della strage di Columbine, costretti su sedie a rotelle, al quartier generale di K-Mart per "restituire" i proiettili ancora conficcati nei loro corpi, non sta documentando un evento: lo sta creando. È teatro politico, è happening, è un atto cinematografico che squarcia il velo dell'ipocrisia aziendale con una forza che nessuna statistica o intervista a un esperto potrebbe mai avere.

La struttura del film è un collage vertiginoso, un montaggio delle attrazioni di eisensteiniana memoria, riadattato per l'era della televisione via cavo. Sequenze di una comicità surreale – come l'intervista all'ideatore di South Park, Matt Stone, o la visita al fratello squilibrato dell'attentatore di Oklahoma City, Terry Nichols – si alternano a momenti di pathos quasi insostenibile. La sequenza costruita sulle registrazioni audio delle telecamere di sicurezza della Columbine High School, sovrapposta alla cover di "Happiness Is a Warm Gun" dei Beatles, è un pugno nello stomaco che trascende la cronaca per diventare elegia, un lamento funebre per un'innocenza perduta che forse non è mai esistita. Moore non si limita a presentare i fatti; li orchestra in una sinfonia dissonante, dove il jingle pubblicitario di una fiera di armi può sfociare, senza soluzione di continuità, nel pianto di un genitore. È qui che il film rivela la sua parentela più profonda, non tanto con il documentario politico, quanto con il surrealismo. L'America di Bowling for Columbine è un paesaggio degno di Dalí, dove orologi molli sono sostituiti da fucili d'assalto appesi alle pareti di un fast-food e dove la logica del sogno (o dell'incubo) governa le interazioni umane.

Il cuore teorico dell'opera risiede in un brillante corto animato che riscrive la storia degli Stati Uniti come una paranoica "Brief History of Fear". Dai Padri Pellegrini alla Guerra Fredda, dalla schiavitù al Ku Klux Klan, fino alla moderna demonizzazione dell'uomo nero da parte dei notiziari locali, Moore costruisce una tesi audace: il problema non sono le armi in sé, ma la cultura della paura che le alimenta. Una paura pervasiva, instillata e amplificata da un sistema mediatico che trae profitto dal terrore e da una politica che lo usa come strumento di controllo. È un'analisi che sposta il focus dall'oggetto (la pistola) al soggetto (l'americano spaventato), trasformando il film da un'inchiesta sulla lobby delle armi a una profonda meditazione sull'identità nazionale. In questo senso, il Canada funge da perfetto "controllo" narrativo: una nazione con un numero simile di armi pro capite ma con una frazione della violenza, un luogo dove la gente, letteralmente, non chiude a chiave la porta di casa. L'utopia canadese di Moore è forse semplicistica, ma la sua funzione retorica è potentissima: serve a dimostrare che il problema è culturale, non materiale.

L'apoteosi del metodo-Moore, il momento in cui la sua strategia performativa raggiunge il suo culmine etico ed estetico, è l'intervista con Charlton Heston. L'attore, allora presidente della National Rifle Association, è un'icona, un monolite della vecchia America, il Mosè de I Dieci Comandamenti e l'astronauta de Il pianeta delle scimmie. Moore non si avvicina a lui come un giornalista, ma come un fan deluso, un cittadino che chiede conto al suo idolo. L'intervista è tesa, imbarazzante, e alla fine Heston si alza e se ne va, lasciando Moore solo nella sua villa sfarzosa, a contemplare una fotografia di una bambina uccisa a Flint, Michigan. La scena è stata criticata come un'imboscata crudele a un uomo anziano e forse già malato. Ma da un punto di vista puramente cinematografico, è un momento di una potenza devastante. Non si tratta di ottenere risposte, ma di filmare il silenzio, l'impossibilità del dialogo tra due Americhe che non si capiscono più. L'abbandono di Heston è la capitolazione di un'intera visione del mondo di fronte a una domanda semplice e terribile. L'immagine di Moore che lascia la fotografia sulla soglia è un gesto simbolico che chiude il cerchio: il documentarista non è più un testimone, ma un attore che lascia una traccia indelebile sulla scena del crimine.

Bowling for Columbine ha cambiato per sempre il panorama del documentario, sdoganando la figura del regista-protagonista e dimostrando che un'opera di non-fiction poteva incassare centinaia di milioni di dollari e vincere un Oscar. Ha generato innumerevoli imitatori, spesso privi della finezza e dell'acume di Moore, che hanno ridotto il suo stile a una formula stanca. Ma rivisto oggi, il film conserva intatta la sua forza urticante, la sua capacità di far ridere e un attimo dopo far gelare il sangue. Non offre soluzioni, perché le domande che pone sono troppo complesse per risposte facili. È piuttosto uno specchio deformante teso di fronte a una nazione, che ne riflette le contraddizioni, le nevrosi e la violenza latente con la lucidità spietata di un saggio di Gore Vidal e la follia visiva di un cartone dei Looney Tunes. Un'opera fondamentale, non perché ci dica cosa pensare della cultura delle armi, ma perché ci insegna un nuovo modo di guardare, e di interrogare, la realtà stessa che il cinema pretende di rappresentare.

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