Chiaro di donna
1979
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Regista
Un colpo di stato sentimentale. Ecco come si potrebbe definire l'incursione di Costa-Gavras nel territorio minato del mélo, un'operazione talmente spiazzante da apparire, a prima vista, come un'aporia nella filmografia del grande cantore della paranoia politica. Abituati al suo cinema-verità teso e febbrile, quello delle macchinazioni internazionali, dei desaparecidos e dei processi-farsa, ci troviamo proiettati in una Parigi crepuscolare, quasi metafisica, dove l'unica cospirazione in atto è quella che il dolore trama contro l'anima. Chiaro di donna è il thriller che Costa-Gavras non gira contro un regime, ma contro il vuoto esistenziale; il suo dossier non è su un omicidio politico, ma sulla lenta emorragia del vivere dopo una perdita irreparabile.
Il film, tratto dal romanzo omonimo di Romain Gary – e non si può prescindere da questo nume tutelare per decifrare l'opera –, orchestra un incontro che ha la fatalità di una collisione cosmica e la disperazione di un appiglio nel vuoto. Michel (un Yves Montand magnificamente scarnificato, privato di ogni scoria di seduzione proletaria o di cinismo intellettuale) è un uomo in caduta libera. Sua moglie è un vegetale morente in una stanza d'ospedale, un amore finito che si rifiuta di morire, e lui vaga per la città come un sonnambulo, in attesa di un verdetto che è già stato scritto. Incontra Lydia (Romy Schneider), e l'impatto è immediato, violento, necessario. Anche lei è un'esule dalla vita: la sua bambina è morta, suicida, e il suo matrimonio è un relitto arenato sulla stessa spiaggia di disperazione. Non si seducono, si riconoscono. La loro è una conversazione tra fantasmi che cercano disperatamente di provare di essere ancora vivi.
Questo non è il romanticismo consolatorio di Hollywood, né l'elegia borghese alla francese. È esistenzialismo allo stato puro, distillato e servito in un bicchiere incrinato. È Camus che incontra Cioran in un bistrot notturno. La Parigi di Costa-Gavras non è la città delle luci e degli amanti, ma un labirinto di solitudini illuminate al neon, un non-luogo hopperiano dove ogni vetrina riflette un'assenza. Il regista applica la sua grammatica da thriller politico all'intimità dei suoi protagonisti: i primi piani sono interrogatori, i silenzi sono omissis in un verbale, la tensione non è data da un timer che corre verso l'esplosione di una bomba, ma dal terrore costante che il fragile legame che li unisce possa spezzarsi, rigettandoli nell'abisso da cui provengono.
Per comprendere la vertigine di Chiaro di donna, bisogna tornare a Romain Gary. Scrittore-aviatore, eroe di guerra, diplomatico, doppio vincitore del Prix Goncourt (la seconda volta sotto lo pseudonimo di Émile Ajar, in una beffa letteraria senza precedenti), Gary era un uomo ossessionato dalla necessità di inventare l'amore come ultimo baluardo contro l'assurdità del cosmo. I suoi personaggi amano non per felicità, ma per sopravvivenza. La "coppia-rifugio" è un tema centrale della sua opera: due esseri feriti che si uniscono per creare un micro-universo di senso in un mondo che ne è privo. Michel e Lydia non si innamorano, ma fondano una nazione di due persone, con leggi proprie, basata su un unico articolo: è vietato abbandonarsi. Il loro patto ha la sacralità disperata dei sopravvissuti a un'apocalisse.
Yves Montand, attore feticcio di Costa-Gavras, qui compie un miracolo di sottrazione. Il suo volto è una mappa di un'Europa stanca, gli occhi portano il peso di una lucidità insopportabile. Non recita il dolore, lo abita. Ma è Romy Schneider a elevare il film a un livello quasi insostenibile di verità. La sua performance è un atto di trasfigurazione. È impossibile, e forse intellettualmente disonesto, separare la sua Lydia dalla biografia dell'attrice, segnata da lutti che sembrano riecheggiare tragicamente quelli del suo personaggio. C'è una scena, in particolare, in cui Lydia parla della figlia, e lo sguardo di Schneider si proietta oltre la macchina da presa, in un altrove personale e devastato. Non è più finzione, è un sismografo dell'assenza. Il "chiaro di donna" del titolo non è la luce lunare e romantica, ma il bagliore febbrile e quasi spettrale che emana da lei, una luce che illumina e al tempo stesso rivela la profondità delle tenebre circostanti. È la luce di una stella che sta per collassare.
Costa-Gavras, da stratega qual è, dissemina il film di figure satellitari che agiscono come contrappunti grotteschi e pietosi alla tragedia centrale. C'è il domatore di cani istrione e la sua "moglie-ponte", una coppia che ha trasformato il proprio rapporto in uno spettacolo circense per non affrontare il dolore; c'è il tassista che parla con la moglie morta attraverso la radio. Sono tutte variazioni sul tema, tentativi strampalati e commoventi di riempire il vuoto, che servono a sottolineare, per contrasto, la purezza terribile del legame tra Michel e Lydia. Loro non hanno bisogno di trucchi, la loro unica performance è l'aggrapparsi l'uno all'altra.
Stilisticamente, il film è di una classicità rigorosa, quasi bressoniana nell'economia dei mezzi. La fotografia di Ricardo Aronovich immerge la narrazione in un'atmosfera ovattata, dove la notte sembra perenne e il giorno una breve, pallida tregua. Non c'è un'inquadratura di troppo, non un dialogo superfluo. La forza del film risiede proprio in questo scarto: la materia incandescente, quasi isterica, del romanzo di Gary viene contenuta in una forma controllatissima, quasi fredda. Questa dissonanza crea un effetto di implosione emotiva: il dramma non esplode sullo schermo, ma dentro lo spettatore.
Chiaro di donna può essere letto come il negativo fotografico del cinema politico del suo autore. Se in Z o Missing la scomparsa di un individuo rivelava la patologia di un intero sistema politico, qui la patologia del dolore individuale eclissa il mondo esterno, rendendolo un rumore di fondo insignificante. È un film profondamente anti-ideologico, girato nel crepuscolo degli anni '70, un decennio che si era aperto con grandi speranze collettive e si chiudeva con un ripiegamento nel privato. In questo senso, è un'opera profondamente radicata nel suo tempo: la fine delle utopie lascia il posto a un'unica, fragile utopia possibile, quella a due.
Confrontarlo con altri film sulla perdita è un esercizio quasi obbligato. Potrebbe ricordare l'intensità cameristica di un Bergman, ma senza il suo gelo protestante. Potrebbe avere l'urgenza di un Cassavetes, ma senza la sua estetica nervosa e improvvisata. Forse l'accostamento più audace è con Hiroshima mon amour di Resnais: anche lì, due estranei uniscono le proprie ferite personali e storiche, cercando di costruire un presente su un passato che non può essere cancellato. Ma mentre il film di Resnais è un'elegia sulla memoria e l'oblio, l'opera di Costa-Gavras è un inno alla resistenza. Non si tratta di dimenticare, ma di trovare qualcuno con cui ricordare, trasformando il fardello del passato in un fondamento condiviso.
In definitiva, Chiaro di donna non è solo una deviazione, ma un completamento del percorso di Costa-Gavras. È la dimostrazione che l'analisi più lucida del potere e dell'oppressione può essere applicata anche alla più intima delle dinamiche umane. È un film che ci dice che, a volte, la battaglia più eroica non si combatte nelle piazze o nei tribunali, ma in una stanza d'albergo, nel cuore della notte, quando due persone decidono che il calore di un altro corpo è l'unica patria rimasta. Un capolavoro straziante, necessario, la cui luce, benché flebile, continua a illuminare le nostre rovine.
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