Perdizione
1988
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Regista
Perdizione è il momento in cui Tarr, saldando la sua visione a quella dello scrittore László Krasznahorkai (che qui co-sceneggia, adattando un suo romanzo), smette di osservare la disperazione sociale e inizia a filmare la putrefazione ontologica. La pioggia che cade incessantemente in questo film non è acqua; è il tempo stesso che si liquefa, erodendo ogni illusione di significato, ogni pretesa narrativa, lasciando solo fango, alcol e la coreografia circolare dell'attesa. Siamo alla fine della storia, nel crepuscolo fangoso del regime di Kádár in Ungheria, ma la crisi qui non è ideologica. È geologica. L'anima stessa si sta sgretolando.
L'estetica di Perdizione è la sua filosofia. Tarr e il suo direttore della fotografia, Gábor Medvigy, non usano il bianco e nero: scolpiscono nel grigio, in una scala di cenere che va dal fumo di sigaretta al fango rappreso. Il film si apre (e continua) con quelli che diventeranno il marchio di fabbrica del regista: i piani sequenza lenti, inesorabili, che non seguono l'azione ma la precedono o la abbandonano. La famosa carrellata iniziale sui carrelli della teleferica che trasportano carbone non è uno sfondo industriale; è una metafora dell'universo. Sono secchi vuoti che calano nel nulla per riportare su altro nulla, in un ciclo perpetuo e inutile. La macchina da presa di Tarr non è l'occhio di Dio; è l'occhio di un fantasma stanco, un testimone che non può intervenire, che fluttua attraverso muri e finestre bagnate con una grazia spettrale. Se il montaggio, da Ejzenštejn in poi, crea significato attraverso la collisione (la tesi, l'antitesi, la sintesi), il "Tarr-time" crea significato attraverso la durata. Ci costringe a restare, a sopportare, a condividere la stessa temporalità stagnante dei suoi personaggi, finché la nostra impazienza borghese non collassa e non ci arrendiamo al ritmo del vuoto.
Il film possiede la struttura scheletrica di un film noir, ma è un noir che è stato lasciato a decomporsi sotto la pioggia per un decennio. C'è un antieroe disperato, Karrer (Miklós Székely B.), un uomo la cui depressione è così totalizzante da essere diventata il suo unico motore. C'è una femme fatale logora, la Singer (Vali Kerekes) del bar Titanik (un nome che non è un caso, ma una diagnosi). C'è un intrigo (un contrabbando) e un tradimento. Ma Tarr svuota questi tropi di ogni loro connotazione romantica o psicologica. L'ossessione di Karrer per la cantante non è passione; è la ricerca disperata di un oggetto su cui proiettare la sua immobilità, un altro essere vuoto con cui tentare una frizione. Il loro sesso è meccanico, disperato, una ginnastica della solitudine. La "trama" è solo un altro rituale fallimentare, un movimento convulso prima del rigor mortis esistenziale. Il bar Titanik non è un luogo d'incontro, ma il relitto della comunità, dove l'unica liturgia rimasta è l'alcol e la musica di Mihály Víg, una nenia funebre che suona come un tango per fantasmi.
La vera protagonista del film è l'atmosfera. Il fango. La pioggia onnipresente. E i cani. I cani di Perdizione sono i veri abitanti di questo mondo, i custodi dell'abisso. Sono la versione di Tarr delle Furie greche, o forse, più semplicemente, la forma di vita che ha già accettato la Kárhozat (la Dannazione). Il modo in cui Karrer, a un certo punto, viene circondato da un branco di cani che abbaiano non è una minaccia fisica; è un riconoscimento. Loro, che vivono nel fango, riconoscono in lui un impostore, uno che ancora si aggrappa pateticamente ai rimasugli dell'umanità. Il paesaggio non è uno sfondo; è un paesaggio-anima. Questo non è il realismo socialista; è un espressionismo invertito. Non è il mondo interno che deforma la realtà esterna, ma è la realtà esterna—il collasso industriale, il fallimento ideologico, l'umidità—che ha invaso e sostituito il mondo interno.
La catabasi di Karrer è totale. Dopo essere stato tradito (non da un piano malvagio, ma dalla semplice, banale disperazione altrui), Karrer compie l'ultimo passo. Il film è una parabola sulla perdita dell'umanità come unica forma di adattamento. Nell'ultima, sconvolgente sequenza, Karrer si unisce ai cani. Non è una metafora. Sotto la pioggia battente, nel fango fino alle caviglie, si accovaccia e inizia a latrare. Non è impazzito. Ha semplicemente smesso di mentire. Ha smesso di fingere di essere "umano", un concetto che in questo universo non ha più alcuna valuta. Ha accettato la sua vera natura, quella di una creatura del fango, un essere post-storico la cui unica espressione possibile è un abbaiare al vuoto cosmico. In Perdizione, non c'è Dio e non c'è Diavolo. C'è solo il meteo. E il meteo è terminale. È un'opera di una bellezza desolata e implacabile, un testamento che ci insegna che l'inferno non è il fuoco; l'inferno è l'umidità.
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