Divorzio all'italiana
1961
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Regista
La prigione più sicura non è quella con le sbarre alle finestre, ma quella santificata dalla legge e dalla tradizione. È una gabbia dorata di abitudini, sguardi di sbieco e obblighi mormorati, un labirinto dal quale l'unica via di fuga contemplata è la morte. Pietro Germi, con "Divorzio all'italiana", non si limita a filmare questo labirinto; vi installa un Minotauro ridicolo e sudaticcio, il barone Ferdinando "Fefè" Cefalù, e orchestra la sua disperata, esilarante e infine tragica ricerca del filo d'Arianna. Il film, sin dal titolo che ha battezzato un intero genere, si presenta come un ossimoro programmatico: unire la brutalità di un atto criminale alla leggerezza apparente della commedia, trasformando un dramma sociale in una farsa grottesca di precisione chirurgica.
Siamo in Sicilia, ad Agramonte, un luogo che trascende la geografia per diventare uno stato della mente, un palcos हम dove il sole non illumina ma cuoce, sbianca le facciate e i cervelli. L'aria stessa sembra densa di pettegolezzi e giudizi inespressi. Qui vive Fefè, interpretato da un Marcello Mastroianni che compie un atto di sublime auto-sabotaggio. L'attore, appena consacrato icona di stile e di intellettuale malinconia in "La dolce vita", si disfa di ogni scoria di glamour per incarnare un nobile decaduto la cui unica attività è la gestione della propria noia e della propria libido repressa. Il suo tic nervoso alla bocca, il modo in cui fuma compulsivamente, il sudore perenne sulla fronte: Mastroianni non recita Fefè, lo traspira. È un'interpretazione che si colloca agli antipodi del suo divismo, un'operazione di decostruzione che ricorda quella di un grande attore shakespeariano che, dopo aver interpretato Amleto, si getta a capofitto nel ruolo di un Falstaff patetico e provinciale.
La trama, nella sua diabolica semplicità, è un meccanismo a orologeria degno di un racconto di Boccaccio iniettato di veleno kafkiano. In un'Italia dove il divorzio è un'utopia illegale, ma il delitto d'onore è punito con una pena quasi simbolica, Fefè concepisce un piano tanto logico quanto mostruoso: indurre la moglie Rosalia (una superba Daniela Rocca, la cui fisicità opprimente è la perfetta incarnazione della trappola matrimoniale) all'adulterio per poterla cogliere in flagrante, ucciderla e, dopo una breve e onorevole detenzione, sposare la giovane e angelica cugina Angela (Stefania Sandrelli). La narrazione, affidata alla voce fuori campo dello stesso Fefè, non è un semplice espediente espositivo, ma il cuore pulsante del film. È il monologo interiore di un Raskol'nikov da operetta, un diario di bordo che trasforma un piano omicida in un progetto burocratico, una "pratica" da sbrigare con meticolosità. Questo dispositivo narrativo ci rende complici dei suoi pensieri, ci fa spiare il mondo attraverso il suo sguardo deformato, dove la realtà si piega costantemente alla sua fantasia paranoica. Le sequenze oniriche, in cui immagina di sbarazzarsi della moglie nei modi più creativi – dal sapone alla pentola a pressione – non sono semplici gag, ma incursioni in un inconscio che ha metabolizzato la violenza come unica soluzione possibile, un'estetica da Grand Guignol applicata alla vita coniugale.
Germi non dirige una commedia, ma un horror travestito. La macchina da presa si muove con la curiosità di un entomologo che studia un nido di insetti. Gli zoom improvvisi sui volti, i primi piani che isolano dettagli grotteschi, la folla di parenti e compaesani che si muove come un coro greco in nero, commentando non a parole ma con sguardi e gesti: tutto contribuisce a creare un'atmosfera asfissiante. Agramonte non è una comunità, ma un panopticon a cielo aperto, un organismo monocellulare il cui unico imperativo è la conservazione dell'onore, ovvero della facciata. È lo stesso universo claustrofobico che Luis Buñuel avrebbe potuto immaginare per "L'angelo sterminatore", ma spogliato del surrealismo e calato in un iperrealismo tanto più terrificante. La vera prigione di Fefè non è il matrimonio con Rosalia, ma lo sguardo degli altri. Il suo piano non è solo un atto di liberazione personale, ma un tentativo disperato di manipolare il giudizio collettivo, di trasformare un omicidio in un atto socialmente approvato, quasi un dovere civico.
Il film è una dissezione spietata della mascolinità in crisi. Fefè è l'antitesi del maschio latino. È impotente, non solo sessualmente (come suggerito in più di un'occasione), ma socialmente e intellettualmente. Le sue fantasie di conquista e dominio si scontrano con una realtà in cui è un burattino mosso dai fili della tradizione. La sua ossessione per la giovane Angela non è amore, ma un'aspirazione a una purezza e a una vitalità che sente di aver perso, un tentativo di vampirizzare la giovinezza per sentirsi di nuovo vivo. In questo, la sua figura si avvicina a quella di certi protagonisti della letteratura mitteleuropea, come l'Uomo senza qualità di Musil, un essere definito solo in negativo, dalla sua incapacità di agire e di essere. Fefè, però, a differenza dei suoi omologhi letterari, decide di agire, e la sua azione è una caricatura grottesca dell'eroismo tragico: un'epopea al contrario, dove la grande impresa non è fondare una città o vincere una guerra, ma orchestrare il più squallido degli uxoricidi.
La genialità di "Divorzio all'italiana" risiede nel suo perfetto equilibrio tonale. È un film che fa ridere a crepapelle, ma è una risata che si gela in gola, che lascia un retrogusto amaro di cenere. È l'umorismo nero di un Billy Wilder immerso nell'acido, dove il cinismo non è un vezzo stilistico ma una necessità morale. L'impianto satirico è talmente potente perché non si accanisce sui personaggi, che nella loro miseria umana risultano quasi perdonabili, ma sul sistema che li ha prodotti. La legge sul delitto d'onore (che, è bene ricordarlo, fu abrogata solo nel 1981) è il vero "villain" del film, un'entità astratta e mostruosa che trasforma persone comuni in potenziali assassini. Germi, insieme agli sceneggiatori Ennio De Concini e Alfredo Giannetti, non emette un giudizio, ma espone i fatti con la lucidità di un referto medico, lasciando che l'assurdità della situazione parli da sola.
E poi, c'è il finale. Un colpo di genio che eleva il film da capolavoro di satira a tragedia universale. Dopo aver realizzato il suo piano, Fefè è finalmente libero, in barca con la sua amata Angela. Il sole splende, il mare è calmo. Sembra l'happy end che ha tanto agognato. Ma la cinepresa, con un movimento lento e inesorabile, scende lungo il corpo della giovane sposa e rivela il suo piede che accarezza quello del giovane timoniere. Gli occhiali da sole di Fefè, che per tutto il film sono stati il simbolo del suo desiderio di apparire un uomo di mondo, diventano il paraocchi che gli impedisce di vedere la verità. La prigione non è stata demolita, ha solo cambiato arredamento. Il ciclo è destinato a ripetersi, in un'eterna commedia dell'assurdo dove la libertà è solo l'intervallo tra una condanna e l'altra. È un finale che ha la perfezione geometrica di un paradosso di Escher e la crudeltà di una favola dei fratelli Grimm. Fefè non è stato liberato; ha semplicemente scambiato il suo vecchio carceriere con uno nuovo. La sua ricerca di divorzio "all'italiana" si è conclusa con il più italiano dei matrimoni: una splendida facciata che nasconde un inevitabile, e forse desiderato, tradimento. Il capolavoro di Germi rimane un oggetto cinematografico perfetto, un diamante nero che brilla di una luce sinistra e irresistibilmente intelligente.
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