Europa '51
1952
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Regista
La santità, in un mondo che ha smarrito il dizionario per decifrarla, non può che apparire come una forma di follia. È questa la diagnosi spietata, la tesi incandescente che Roberto Rossellini scolpisce nel corpo martoriato di Ingrid Bergman in Europa '51. Abbandonato il coro del Neorealismo più puro, quello di Roma città aperta e Paisà, il regista si avventura in un territorio interiore, desolato e spettrale, che aveva già iniziato a esplorare con Stromboli. Qui, però, il vulcano non è più una minaccia geologica ma una crepa dell'anima, un abisso che si spalanca nel cuore della civiltà occidentale ricostruita sulle macerie fumanti della propria autodistruzione. Il film si apre non con un evento, ma con un'assenza: l'assenza di senso in un salotto borghese romano, dove il fruscio degli abiti eleganti e il tintinnio dei bicchieri non riescono a coprire il silenzio assordante di un bambino trascurato. La morte del piccolo Michele, un suicidio che irrompe come un frammento di Cronenberg in un dramma da camera, non è un semplice innesco narrativo; è un atto d'accusa, un giudizio biblico sull'aridità spirituale di una classe sociale e di un'intera epoca.
Irene Girard, la madre, è una creatura ibseniana catapultata nell'Italia del boom economico nascente. La sua colpa non è la malvagità, ma una superficialità così profonda da essere diventata la sua intera ontologia. La tragedia la costringe a "vedere". Il suo percorso di espiazione diventa allora un percorso di conoscenza, una discesa agli inferi della periferia romana che somiglia a un percorso cristologico laico, una Via Crucis post-bellica. Ogni stazione è un incontro con il reale nella sua forma più cruda: la famiglia proletaria stipata in una baracca, la fabbrica alienante, la prostituta malata, il giovane delinquente. Rossellini non filma la povertà con compiacimento populista o con la freddezza del documentarista; la filma come una rivelazione, uno squarcio nel velo di Maya della percezione borghese di Irene. In questo, il film anticipa di un decennio la fenomenologia dello sguardo di Pasolini, che userà i volti degli ultimi come icone sacre e rivoluzionarie. Lo sguardo di Irene/Bergman non giudica, non condanna, non cerca di "risolvere" il problema. Semplicemente, vede. E in questa visione risiede la sua radicale conversione.
Il parallelismo più immediato e potente è con La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer. Come la Falconetti, la Bergman offre il suo volto come un paesaggio su cui si consuma il dramma della fede contro il potere istituzionale. I primi piani di Rossellini sono interrogatori spietati, cercano l'anima attraverso la pelle, la luce che filtra dalle crepe di una maschera sociale in frantumi. Ma se la Giovanna di Dreyer è martire di una fede teologica precisa, la Irene di Rossellini è martire di un'empatia assoluta, di un amore incondizionato che il mondo secolarizzato non sa più come classificare. La sua fede non è in Dio, ma nell'Uomo. È una santa senza paradiso, una mistica senza teologia. In lei risuonano gli scritti di Simone Weil, la filosofa che parlava dell'attenzione come la forma più rara e pura della generosità, la capacità di chiedere a un altro essere umano: "Qual è il tuo tormento?". Irene impara a porre questa domanda, e le risposte la distruggono per poi ricomporla in una forma nuova, irriconoscibile e pericolosa.
Il cuore dialettico del film pulsa nella straordinaria sequenza del confronto con Andrea, il cugino comunista interpretato da un magnifico Giuliano Montaldo. Qui, Rossellini mette in scena lo scontro tra le due grandi utopie del dopoguerra: la carità cristiana (secolarizzata in umanitarismo puro) e l'ideologia marxista. Andrea offre una soluzione politica, strutturale, collettiva. Vede la povertà come un'ingiustizia da abbattere con la lotta di classe. Irene, invece, risponde al dolore individuale, immediato, irriducibile a qualsiasi sistema. "Non si tratta di organizzare la felicità del mondo, ma di alleviare caso per caso l'infelicità", sembra dire con le sue azioni. Rossellini, con un'onestà intellettuale disarmante, non prende posizione. Mostra la lucidità dell'analisi di Andrea, ma anche la sua freddezza. Mostra la purezza dell'impulso di Irene, ma anche la sua inefficacia politica. Il film suggerisce che entrambe le visioni, prese nella loro assolutezza, sono insufficienti. La politica senza amore diventa dogma disumano; l'amore senza coscienza politica rischia di essere un balsamo inefficace su una ferita mortale. Europa '51 è il dramma di questa scissione, la tragedia di un continente che ha separato la giustizia dalla compassione.
Questa crisi spirituale è inestricabilmente legata al rapporto, allora scandaloso, tra Rossellini e la Bergman. L'attrice, diva hollywoodiana ripudiata dall'America puritana per la sua relazione extraconiugale con il regista, riversa nel personaggio di Irene tutta la sua esperienza di isolamento e di giudizio pubblico. La performance è una testimonianza a cuore aperto, una fusione meta-testuale tra attrice e personaggio che conferisce al film una fragilità e una potenza inaudite. Quando il mondo del film – il marito, i medici, il prete, il giudice – si coalizza per definire Irene "pazza", è impossibile non sentire l'eco del linciaggio mediatico subito dalla stessa Bergman. La società non condanna Irene per le sue azioni, ma per l'impossibilità di incasellarle. Il suo altruismo radicale non rientra né nella logica capitalistica del profitto, né in quella marxista della lotta, né in quella cattolica dell'obbedienza istituzionale. È un corpo estraneo, un'anomalia, un virus nel sistema. E come ogni virus, deve essere isolato.
Il finale, ambientato in un manicomio che assomiglia a una prigione, è di una lucidità terrificante. È la piena realizzazione del parallelismo con L'idiota di Dostoevskij. Come il principe Myškin, Irene è una "creatura positivamente bella" la cui bontà assoluta, invece di redimere il mondo, ne rivela l'intrinseca corruzione e la spinge a espellerla. La società "sana" si protegge dalla santità internandola, medicalizzando il mistero, trasformando la grazia in una patologia. L'ultima inquadratura, con i volti della gente comune che la chiamano dalle sbarre della sua finestra, è un capolavoro di ambiguità e potenza. Sono i suoi seguaci? I testimoni del suo martirio? O semplicemente altri disperati che vedono in lei un'ultima, folle speranza? Rossellini non dà risposte, ci lascia con questa immagine potentissima: una santa moderna, prigioniera del mondo che ha cercato di salvare, separata da esso da una grata di ferro che è il simbolo di ogni barriera ideologica, sociale e psicologica. Europa '51 è un film scomodo, imperfetto, a tratti didascalico, ma la sua domanda centrale risuona oggi con una forza profetica. In un'epoca che ha trasformato l'empatia in una performance sui social media e la complessità in slogan, la "follia" di Irene Girard ci interroga ancora, come uno specchio implacabile che ci chiede cosa siamo disposti a sacrificare, non per un'idea o per un dio, ma semplicemente per un altro essere umano.
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