F come Falso
1973
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Regista
Un prestigiatore non svela mai i suoi trucchi. Orson Welles, il più grande mago che il cinema abbia mai conosciuto, infrange questa regola aurea per costruirne una nuova, infinitamente più complessa: svelare il trucco è esso stesso il trucco più grande. F come Falso non è un film; è un patto faustiano con lo spettatore, un saggio-film funambolico, un trattato di epistemologia mascherato da documentario scapestrato. È il testamento spirituale di un artista che ha passato la vita a essere accusato di ciarlataneria – dalla beffa radiofonica de La guerra dei mondi alla sua stessa, ingombrante, figura pubblica – e che qui, con un guizzo di genio terminale, decide di abbracciare l'accusa e trasformarla in un'opera d'arte definitiva.
Il film si presenta come un'indagine su due imbroglioni di fama mondiale: Elmyr de Hory, falsario d'arte capace di replicare i maestri del modernismo con una tale abilità da ingannare i più grandi esperti, e Clifford Irving, biografo che quasi riuscì a spacciare al mondo un'autobiografia apocrifa del recluso miliardario Howard Hughes. Ma Welles, con il suo mantello nero e il sigaro perennemente acceso, non è un semplice narratore. È il terzo vertice di questo triangolo della menzogna, il burattinaio che si inserisce di prepotenza nella narrazione, ammettendo fin dall'inizio la sua stessa inaffidabilità. "Tutto ciò che vedrete in quest'ora è assolutamente vero", promette con un sorriso sornione. Una promessa che, nel cinema di Welles, suona come la più deliziosa delle minacce.
Questo non è il cinema-verità, è il cinema-menzogna, o meglio, il cinema che usa la menzogna per arrivare a una verità più profonda, una verità sull'arte, sull'autorialità e sulla nostra disperata fame di storie. La struttura del film è un labirinto borgesiano. Se Jorge Luis Borges avesse diretto un film, avrebbe probabilmente assomigliato a questo. Come in "Tlön, Uqbar, Orbis Tertius", dove un'enciclopedia fittizia inizia a plasmare la realtà, Welles assembla frammenti di un documentario preesistente di François Reichenbach, interviste, filmati di repertorio e scene girate ex-novo, creando un collage rizomatico che sfida ogni logica lineare. Il montaggio, curato magistralmente con Marie-Josèphe Yoyotte e Dominique Engerer, è una forma di prestidigitazione visiva. Tagli secchi, associazioni fulminee, un ritmo sincopato che ricorda più una jam session jazz che un documentario della BBC. È la forma che si fa contenuto: un film su dei falsari montato come se fosse esso stesso un collage di opere rubate e riassemblate per creare qualcosa di nuovo e, paradossalmente, di originale.
In questo, Welles anticipa e dialoga con le avanguardie a lui contemporanee. Se la Nouvelle Vague, e in particolare Godard, decostruiva il linguaggio cinematografico per esporne l'artificialità con piglio politico e intellettuale, Welles lo fa con la gioia anarchica di un illusionista. Non è un'analisi fredda, è uno spettacolo pirotecnico. Egli gioca con lo spettatore, lo seduce, lo confonde, lo porta in una moviola avanti e indietro nel tempo, dimostrando che la "verità" di un'immagine dipende interamente dal contesto in cui è inserita. Una sequenza può significare una cosa, ma se rieditata e accostata a un'altra, il suo significato si capovolge. È la quintessenza del cinema, l'essenza stessa dell'atto demiurgico del montaggio.
Il film è anche una riflessione auto-ironica e profondamente malinconica sulla carriera del suo autore. F come Falso è lo specchio deformante di Quarto Potere. Entrambi i film sono costruiti come un puzzle, un'inchiesta per definire un uomo enigmatico attraverso testimonianze frammentarie e contraddittorie. Ma se Quarto Potere era una tragedia greca sulla solitudine del potere, mascherata da epica americana, F come Falso è una commedia dell'arte sulla gioia della creazione, mascherata da saggio filosofico. Il "Rosebud" di Charles Foster Kane era il segreto di una perdita irrecuperabile; il segreto di Orson Welles, Elmyr de Hory e Clifford Irving è che non c'è nessun segreto, solo una performance eseguita con maestria. La loro arte non risiede nell'originalità, ma nella capacità di convincere il pubblico dell'esistenza di tale originalità.
In una delle sequenze più potenti e inaspettatamente sincere, Welles abbandona per un attimo il gioco e ci porta nella cattedrale di Chartres. L'obiettivo si sofferma sui dettagli delle sculture, sulla maestosità dell'architettura gotica. Qui, dice Welles, c'è la vera arte. Un'opera collettiva, costruita da generazioni di artigiani anonimi, un capolavoro senza firma. È un momento di pura vertigine. In un film che celebra l'ego smisurato dei falsari e degli showman, l'unico vero metro di paragone per l'arte autentica è un'opera priva di autore, un miracolo nato dalla fede e dal lavoro comune. Questo interludio non è una contraddizione, ma il cuore pulsante del film. Ci ricorda che il nostro feticismo per la firma, per il "nome" dell'artista – un feticismo che de Hory ha sfruttato con diabolica intelligenza – è un'invenzione moderna, quasi una perversione. Cosa rende un Modigliani un Modigliani? La pennellata, l'emozione che suscita o il certificato di autenticità? De Hory, come un Duchamp involontario, mette in crisi l'intero sistema dell'arte, dimostrando che un'opera può essere esteticamente perfetta e al tempo stesso "falsa".
L'irruzione della vicenda di Irving e Howard Hughes a metà produzione fu un dono del destino che solo un genio come Welles poteva cogliere al volo. Hughes, l'invisibile burattinaio, diventa una figura spettrale che aleggia sul film, un'assenza più potente di qualsiasi presenza. E Welles stesso aveva un legame con lui, avendo quasi interpretato il magnate in un film mai realizzato. La realtà, ancora una volta, superava la finzione, offrendo a Welles un ulteriore strato di meta-narrazione da intrecciare nel suo arazzo.
Ma il colpo di grazia, il gioco di prestigio finale, arriva negli ultimi venti minuti. Welles, con la complicità della sua musa e compagna Oja Kodar, ci racconta una storia. Una storia che coinvolge Picasso, ventidue ritratti inediti, un nonno falsario e un patto di seduzione. È una storia perfetta, troppo bella per non essere vera. E proprio quando ci siamo cascati, quando abbiamo abboccato all'amo con tutta la nostra ingenuità, Welles tira la lenza e ci svela l'arcano: è tutto falso. L'intera storiella è un'invenzione, un aneddoto fabbricato ad arte per il film. È il momento in cui F come Falso trascende se stesso. Non è più un film sulla falsificazione, diventa esso stesso un atto di falsificazione. Lo spettatore, che per un'ora si è sentito un complice intelligente del gioco di Welles, scopre di essere stato la sua ultima, deliziata vittima.
In questo gesto finale risiede la lezione più profonda del film, una lezione che oggi, nell'era delle fake news, dei deepfake e delle identità digitali costruite, risuona con una potenza profetica quasi terrificante. Welles ci dimostra che noi non desideriamo la verità. Desideriamo una buona storia. Siamo pronti a sospendere l'incredulità, a credere all'inverosimile, se la narrazione è abbastanza avvincente. L'esperto, il critico, l'autorità – tutti possono essere ingannati, perché in fondo tutti vogliono credere. L'arte, forse, non è altro che la menzogna meglio raccontata. E Orson Welles, con questo suo canto del cigno giocoso e disperato, si conferma il più grande, amabile e indispensabile bugiardo della storia del cinema. Un brindisi, quindi, ai falsari. Perché, come ci sussurra Welles nell'epilogo, "il nostro nome sarà forse fango, ma solo per un'ora o due". L'arte, anche quella falsa, se è grande, dura un po' di più.
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